Ho finito il secondo volume di Che male c’è.
In realtà non ho completamente finito. Manca ancora una cosa, a parte l’esecuzione della copertina e la correzione e impaginazione: la mia rilettura finale, cioè il momento in cui, se tutto va come spero, stampo il romanzo su entrambi i lati di un centinaio abbondante di fogli di carta riciclata, faccio del mio meglio per tenere insieme il pacco e lo porto con me, sempre se tutto va come spero, al bordo del fiume o sotto gli alberi del campo adiacente a quello che mi hanno prestato, o ovunque ci sia ombra, perché tutti quelli che vengono qui dicono che in pianura si muore e noi stiamo bene ma anche in montagna il sole scotta, e rileggendo questa versione finale vedo se ci sono ancora errori o cose da cambiare. C’è la possibilità che non mi piaccia quello che ho scritto, e decida di disdire o rifare tutto, ma non credo – copincollando i capitoli sull’unico file finale mi cadeva l’occhio su qualche frase o scena e ne ero sempre contenta, contenta come chi ricorda un episodio della sua vita con gioia o si compiace di un lavoro o ritrova qualcosa che in passato gli è tanto piaciuto e gli piace ancora. Non è scontato che sia così – l’attività creativa è un mistero, credo, per tutti, e ogni tanto in questi ultimi mesi ripensavo e mi chiedevo: ‘che cazzo ho scritto?’, oppure mi pareva di non aver fatto niente tutto il tempo, o di non essere stata seria, o di non essere in grado di giudicare onestamente il mio lavoro, o di non avergli dedicato abbastanza ore rispetto a quello che fanno gli altri scrittori, o soprattutto, e principalmente, che il libro si fosse scritto da solo. Mi sento quasi tentata di dire, anziché “ho finito” – “è finito”.
Ogni tanto penso che l’unica differenza tra tenacia e testardaggine sia la bontà di un’idea. Andare a vivere in un posto famoso perché la mancanza di lavoro, vivere al di sotto della soglia di povertà (per quanto arbitraria questa sia), rinunciare ormai quasi irreparabilmente a costruirmi un’altra professione e vivere di risparmi, lavoretti e generosità altrui per scrivere un libro che probabilmente meno di cento persone leggeranno può apparire, detto così, addirittura irresponsabile.
Una delle mie storie preferite è quella di come Gabriel Garcia Marquez scrisse Cent’anni di solitudine. Non riesco a trovare la sua versione della vicenda, che avevo letto tempo fa; chi di voi ha più facilità di connessione credo la possa reperire più facilmente. Sostanzialmente, e supponendo che non abbia mentito allo scopo di creare una mini-leggenda, Garcia Marquez visse per mesi senza altri lavori, scrivendo soltanto, accumulando affitti arretrati, indebitandosi, costringendo la moglie a comprare a credito per sopravvivere, e avevano anche già figli, e arrivando, quando il romanzo fu finalmente completato, a non potersi nemmeno permettere di spedire il manoscritto per intero. Gabriel Garcia Marquez racconta che, in quell’ultimo momento, nell’ufficio postale, alla soglia della resa dei conti, sua moglie abbia detto: “manca solo che il tuo romanzo sia brutto.”
Non lo fu, evidentemente – sopravvalutato o meno, Cent’anni di solitudine diventò un classico, ispirò moltissimi altri artisti e contribuì a far vincere al suo autore un premio Nobel per la Letteratura.
Viene da chiedersi: se Garcia Marquez fosse stato un mediocre con velleità da scrittore, e avesse fatto e fatto fare ai suoi cari le stesse rinunce ma per scrivere un libro di cui non fregava niente a nessuno, non lo considereremmo un irresponsabile? E se sì: come faceva Garcia Marquez a essere sicuro di scrivere un capolavoro? Anzi: come faceva a essere sicuro di scrivere un libro che sarebbe stato considerato un capolavoro abbastanza in fretta da permettergli di far uscire la sua famiglia dalla miseria a cui la stava condannando incaponendosi sul fatto di scrivere?
(E, si potrebbe aggiungere: se il libro lo avesse scritto Mercedes, e Gabriel avesse avuto invece il compito di sostenerla e sopportare le preoccupazioni e le umiliazioni, avremmo oggi Cent’anni di solitudine?)
Pare che Garcia Marquez avesse amici a cui leggeva i capitoli man mano che li scriveva, e il loro entusiasmo poteva essere un incoraggiamento ad andare avanti, ma mi pare abbastanza assodato data la storia di qualsiasi disciplina artistica che i gusti dei contemporanei non sono un’indicatore attendibile della qualità e durevolezza di un’opera. Inoltre, gli amici possono avere dei pregiudizi (anche negativi – credo di aver esasperato parecchie persone a me vicine a cui tocca sentire le mie filippiche e poi pure ritrovarsele nelle bozze che gli sottopongo. Un’amica una volta mi ha detto: “ho letto il tuo libro. È stato come aver passato un’estate con te. Terribile”. Poi si è messa a ridere e ha aggiunto: “no, dai, mi è piaciuto”).
L’unico modo abbastanza attendibile per essere sicuri di aver prodotto qualcosa di valore è fingersi morti, magari in modo tragico o curioso così da far parlare parecchio di sé, e poi resistere in un nascondiglio quei decenni necessari (o secoli, ma qui si presentano maggiori difficoltà) perché il giudizio su un’opera espresso da generazione dopo generazione dia indicazioni più valide riguardo al suo valore.
Io penso che se uno è un genio, è anche abbastanza intelligente da capire di aver prodotto un capolavoro. Leggendo Nietzsche mi sembra molto evidente che lui sapeva, nonostante tutte le critiche dei contemporanei e le palle piene dei sempre più allarmati suoi cari, che le sue opere contenevano abbastanza verità profonde, intuizioni esplosive e poesia da giustificare il suo perseverare nell’esprimersi con così tanta arroganza. Nietzsche sapeva con certezza che il futuro lo avrebbe apprezzato e probabilmente questo gli dava la forza di continuare a rendersi odioso al presente (parte del quale comunque già lo capiva).
Il punto è che se il genio è abbastanza genio, almeno secondo me, da sapere di esserlo, il mediocre non necessariamente è abbastanza intelligente da rendersi conto di non esserlo. Anzi: può essere più critico nei confronti di se stesso l’autore di un capolavoro che un dilettante qualsiasi. In realtà, poi, le cose sono molto più complicate e io le sto semplificando.
Io non posso sapere dove mi colloco in questa scala, ma sono contenta del lavoro che ho fatto e sento l’urgenza di condividerlo con chi lo vuole leggere, per due motivi principali: perché so che ci sono persone, e questa è una cosa per cui sono enormemente grata, che aspettano questo libro, e perché mi sembra di aver detto cose che hanno una certa urgenza di essere dette. Non lo dico con arroganza: questo senso di urgenza, di cose che cambiano velocemente e del dovere di provare a intervenire nel dibattito o di crearne uno, è uno dei motivi per cui ho tenuto il blog per tanto tempo e nonostante tutto. In questi mesi ho scritto pochissimo sul blog, e ho cercato di riversare non solo gli argomenti più convenzionalmente romanzeschi, ma anche tutti gli altri, dentro al romanzo. Per non rovinarlo non spiegherò questa cosa nei dettagli, dirò solo che credo di preferire la strada del libro – avrà meno lettori, ma quei lettori probabilmente saranno più attenti. Inoltre, il romanzo può offrire libertà maggiori.
Mi piacerebbe annunciare anche un’approssimativa data di uscita ma, nel caso non l’aveste ancora capito, non ho i soldi per pubblicarlo. C’è chi me li darebbe, ma vorrei che questi soldi venissero dalla stessa attività che dovrebbero finanziare, e non dalla generosità/pena/affetto/preoccupazione di qualcuno.
L’idea migliore che mi è venuta è sempre quella: cercare di organizzare presentazioni. Lo dico sempre e non lo faccio quasi mai, perché non sono capace e le poche sedi a cui ho chiesto non mi rispondono neanche perché è così che va l’Italia. Come ho già detto, se qualcuno ha idee per luoghi od occasioni, può dirmelo. Io in genere vado ovunque mi invitino: ho la fortuna di essere invitata molto poco e quasi solo a eventi che approvo, per cui non devo pormi il problema di essere costretta a dire di no o di decidere se partecipare o meno a parate opinabilmente finanziate che festeggiano cose che non si possono festeggiare e massificano cose che non si dovrebbero massificare – personalmente, e spero di non offendere nessuno, rispetto più una festa per la macellazione del maiale che una festa del libro.
(Se il maiale è stato a sua volta rispettato, ovviamente)
Un altro modo per sostenere la pubblicazione di questo nuovo volume, se volete farlo, è comprare il primo volume di Che male c’è o gli altri romanzi o le poesie, ma probabilmente chi legge i miei libri li ha già tutti e spesso li ha anche già regalati o prestati ad altre persone molte delle quali si trovano ora altrettanto probabilmente nella situazione imbarazzante di stabilire se restituirli senza commenti o tenerseli a tempo indeterminato.
(Personalmente, mi dispiace che i miei libri rimangano in qualche angolino, non letti: piuttosto strappate l’eventuale pagina di dedica, se ci tenete, e rimetteteli in circolazione portandoli in un sito di bookcrossing o regalandoli a una biblioteca)