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Festival di Locarno – La politica approda a Locarno, ed è subito bufera

Creato il 14 agosto 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

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Bastano immagini e pensieri sparsi alla rinfusa per fare un film? Basta che uno accenda il cellulare e riprenda il mondo circostante cosi’ come gli (ap)pare, senza il sussidio di fotografia, tecnici, microfoni, ma soprattutto senza fermarsi di fronte a nulla, neanche ai sospiri dolorosi di un’anziana morente? Qual è il confine tra libertà artistica e pornografia delle immagini? Viene da chiedersi tutto questo mentre si guarda Sangue, esperimento documentaristico dell’attore e regista Pippo Delbono in anteprima a Locarno66.
Un film in cui la vicenda personale di chi gira il film (una madre sul letto di morte) si intreccia con quella del suo amico ed ex leader delle Brigate Rosse Giovanni Senzani (che perde sua moglie). Tra i due lutti, nel finale, viene tirata in mezzo anche L’Aquila come simbolo di una citta’ “orfana”.

Certo che fioccano le polemiche con un film del genere. Polemiche anzi tutto politiche – seguendo la scia di quelle svizzere ”in casa” per il film di Jean-Stéphane Bron L’Experience Blocher – visto il grande spazio concesso ai racconti a ruota libera di un ex terrorista (ammesso che questa definizione abbia senso), insistendo per altro sulle torture subite, quasi a volerlo riabilitare agli occhi del pubblico. Alcune scene, in questo senso, fanno rabbrividire: “Tu sei troppo buono”, dice l’attore e regista al suo amico Giovanni. “Io non sono piu’ sufficientemente cattivo”, risponde lui. Piu’ avanti lo sentiremo dire cose come: “Abbiamo fatto quello che abbiamo fatto per gli ideali e per trasformare questo mondo (…) Abbiamo voluto cercare la purezza”. E persino raccontare l’omicidio di Roberto Peci con lucidità, dichiarando solo “un grandissimo effetto” nel sentirlo gridare prima del brutale assassinio a freddo, “quella che noi chiamamo esecuzione” precisa, rivendicandola come “una decisione politica” per quanto “impressionante”.

Il senso di fastidio cresce quando il cellulare inchioda impietoso il volto della signora Delbono sul letto di ospedale, anche quando lei stessa, visibilmente infastidita, sposta l’obiettivo con la mano. Tanti gli interrogativi che sorgono. Nella società dell’onnipresenza e dell’invasività tecnica e tecnologica, si puo’ almeno morire in pace? Documentare la morte, quella privata, domestica, piu’ intima e tuttavia altrui, non è una nuova forma di violenza? Qual è il confine tra il mero esibizionismo e lo sbattere in primo piano le proprie lacrime per (e durante) un lutto cosî grave?

Non risollevano la situazione scene di maltrattamento gratuito di un tassista come tanti – che stride con l’adulazione per l’amico ex brigatista – o il riferimento finale alle armi. Citiamo testualmente: “A volte mi chiedo se non sarebbe logico prendere ancora le armi per combattere i soprusi (…) gli sfruttamenti, gli abusi di potere”. Su questo è lo stesso Delbono a spiegare: “Basta con la morale cattocomunista, tutti coviamo desideri del genere. Una saggezza di fondo poi ti ferma: oltre ad essere buddhista da 25 anni, non ho mai giocato con le pistole, neanche da bambino”.

E su Senzani: “Quando vedo chi si scandalizza quando lo nomino mi indegno: l’Italia ha sempre paura di conoscere la verità, non si vuole parlare di certe cose per finta morale”. Infine, sui brigatisti: “Al Liceo mi sembravano mostri, facendo questo film ho scoperto un altro Giovanni che non conoscevo”.

di C. Catalli per Oggialcinema.net


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