Anna Lombroso per il Simplicissimus
Chissà se in molti si sono accorti che ieri è stata una giornata tremendamente simbolica: Electrolux, Fiat, anzi Fca, la ghigliottina montata in tutta fretta per tutelare gli interessi della banche. Ma è proprio vera quella frase di Enzensberger: ai tempi del fascismo non sapevo di vivere ai tempi del fascismo. Se non sa insegnarci niente la storia, figuriamoci se ci riesce la cronaca. Eppure se qualcuno si chiede come andrà a finire la vicenda Electrolux, basterebbe che si proietti il trailer di quel che sarà, quello della Fiat, il cui trasloco definitivo è stato definito irrilevante dal presidente del Consiglio che ne apprezza la qualità e il carattere “globale”. E in effetti il moderno feudalesimo ha questa cifra planetaria, a conferma di un disegno e una strategia transnazionale, che ha come autori gli agenti della crisi e come e esecutori gli stessi governi sotto accusa, in una perversa sindrome di Stoccolma.
Certo, la crisi è un fenomeno strutturale, mica un incidente, mica un’anomalia, è frutto delle aberrazioni prevedibili del capitalismo, di quel nuovo ciclo che si apre all’inizio degli anni ’80 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, grazie al quale hanno fatto irruzione sullo scenario economico mondiale di miliardi di contadini poveri, ma ha provocato un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia, provocando enormi disuguaglianze e una gigantesca inflazione, secondo uno strano processo nel quale i debiti non si rimborsano mai. Una volta ai tempi della guerra fredda, che questa ormai è caldissima, si parlava di “complesso militare-industriale”, per definire quella rete di vincoli ideologici, economici, aziendali tra politica, forze armate, industrie. Oggi il “complesso finanziario” ha ancora bisogno di addetti che rappresentino i suoi interessi e le sue logiche, le adattino ai tempi e ai luoghi e le applichino. È il ruolo che hanno assunto la politica e i governi, smantellando con lo stato sociale anche quello di diritto, abbattendo l’edificio delle garanzie del lavoro e il lavoro stesso, facendo smottare irreversibilmente le regole della rappresentanza, i requisiti della sovranità e in sostanza la democrazia. Hanno commesso questi tradimenti, dei quali si vantano come di successi, in parte perché la religione che li guidava non permetteva loro di immaginare alternative, in parte mossi da interessi personali, di appartenenza diretta o di altre parti.
Per quello non si poteva immaginare che i governi italiani avrebbero assunto un ruolo di controparte attiva nei confronti del management e dall’azionariato della Fiat, che agissero con una politica industriale, come si fa in Germania, come si fa negli Usa anche a nostre spese. Le premesse della dichiarazione di resa c’erano state tutte, nel 2008 quando Marchionne prefigurò, immaginando un ruolo di leadership per sé, la concentrazione di tutte le più importanti industrie automobilistiche del mondo in 4 o 5 grandi case, una per continente, in grado do produrre 5-6 milioni di veicoli al mondo. O nel 2009 quando dichiarava che la capacità produttiva mondiale è di oltre 90 milioni di vetture l’anno, almeno 30 milioni in più rispetto alla capacità di assorbimento. Profetizzando così il fallimento della Fiat, il suo annullamento desiderato e profittevole, preannunciando la riuscita del test della conversione della classe operaia in esercito mobile, ricattabile, precario, schiavo.
Il momento simbolo della solitudine nella quale politica, governo, sindacati e larga parte dell’opinione pubblica hanno abbandonato la “fabbrica” e i suoi lavoratori è stato l’infame referendum, la facilità con la quale in troppi si piegarono alla ragionevolezza ingiusta, al ricatto inteso come comprensibile e accettabile compromesso, un saggio per verificare se poi diventasse tutto fattibile, l’irrisione delle sentenze dei tribunali, le promesse menzognere di un piano inesistente, le pretese di aiuti pubblici insieme alla sfrontatezza con la quale sono stati rimossi anni e entità delle regalie statali, assistenzialismo, pratiche salvifiche fatte digerire ai lavoratori tramite rinunce e negazione delle faticose conquiste.
Allora si è affermato il principio che gli investimenti e il lavoro in Italia siano possibili solo se garantiti dai lavoratori con l’abrogazione dei diritti, con la remissione delle libertà, con la rinuncia alle tutele, alla sicurezza, alla salute.
Il test è riuscito, da oggi si replica.