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Fidelio alla Scala

Creato il 08 dicembre 2014 da Gianguido Mussomeli @mozart200657
Foto ©LaScala/FBFoto ©LaScala/FB

Ho riflettuto a lungo prima di decidermi se fosse il caso di aggiungere my two cents (oppure to put in my two pennies worth, in British English) ai resoconti sul Fidelio con cui la Scala ha inaugurato la sua stagione. In realtà non ci sarebbe molto da dire su uno spettacolo di un livello complessivo buono al massimo per una ripresa di repertorio in un teatro tedesco come la Bayerische Staatsoper o la Staatsoper Unter den Linden. Se vale la pena di scrivere queste righe, è solo in quanto questa produzione riassume in sè tutte le magagne della gestione artistica di Stéphane Lissner, di cui essa segnava ufficialmente la conclusione. Non credo di essere l’ unico a pensare che in questi ultimi anni il Teatro alla Scala sia gradualmente piombato in uno dei periodi più bui della sua storia recente. Tanto per dire le cose in modo schietto, sotto la gestione di Lissner il teatro milanese ha perduto completamente la sua fisionomia artistica per diventare null’ altro che una specie di succursale della Staatsoper Unter den Linden. Importazione dei peggiori cascami del Regietheater, incompetenza nella scelta dei cast e la scelta di un direttore musicale che ha sempre trattato il teatro da turista del podio sono i motivi principali che mi spingono a fare un’ affermazione di questo genere. Di tutto questo, il Fidelio che ci accingiamo a commentare costituiva una dimostrazione pressochè esaustiva. Volendo sviluppare il concetto, questo spettacolo era semplicemente una stracca ripetizione di cose già viste e sentite, a partire dalla messinscena e dalla direzione d’ orchestra.

La regia di Deborah Warner era il solito, banale ricalco di un Regietheater  ovvio e risaputo. Dopo la Traviata pizzaiola dello scorso anno, questa volta abbiamo visto una scenografia costituita da una specie di centro sociale insediato in una fabbrica dismessa e popolato da squatters o qualcosa di simile, abbigliati con roba da discount. Niente di originale, visto che la scena era praticamente la stessa dello spettacolo allestito dalla regista inglese a Glyndebourne nel 2001. In questo mappazzone post-industriale, riciclabile per tre quarti delle opere del repertorio comunemente eseguito, non c’ era nulla di strano da segnalare nella condotta scenica dei personaggi, fatta eccezione per il Mocio Vileda con cui Fidelio/Leonore lava il pavimento durante la prima scena e per il tocco di involontaria comicità costituito dalla presenza di un sosia del compianto Tiziano Terzani tra i componenti del gruppo di minatori che nell’ ultima scena abbattevano i muri del centro sociale e festeggiavano la riunificazione della coppia, sullo sfondo di una nevicata di pailettes dorate in stile Mulino Bianco. A parte questo, lo spettacolo era terribilmente noioso e banale nel suo rimasticare luoghi comuni presi da registi come Chereau e Carsen.

Noiosa e banale anche la direzione di Daniel Baremboim, che ha riproposto il suo solito Beethoven enfatico e retorico, dalle sonorità pesanti e massicce e dai tempi slentati, con una totale assenza di carica drammatica e capacità narrative. A questo si aggiungevano diversi problemi di coordinazione tra buca e palcoscenico, con il podio che spesso tendeva a perdere coro e solisti, e alcune evidenti imprecisioni strumentali come il ripetuto scrocco dei corni nell’ introduzione all’ Allegro dell’ aria di Leonore. Come avvenuto già nella sua incisione discografica, anche in questa occasione Baremboim ha sostituito l’ Ouverture in mi maggiore della versione definitiva con la Leonora 2 e le ragioni di questa scelta francamente mi sfuggono, soprattutto se, come in questo caso, non si è attuata l’ inversione dei primi due numeri della partitura , che sarebbe l’ unico modo per giustificare questo pasticcio. Infatti, Beethoven nella prima versione aveva previsto che la conclusione in do maggiore della Leonora 2 fosse seguita dal do minore dell’ aria di Marzelline. Nella versione definitiva, l’ Ouverture in mi maggiore si raccorda, secondo la logica tonale, al la maggiore del duetto tra Marzelline e Jaquino. Far precedere il duetto dalla Leonora 2 crea uno scompenso tra le tonalità dei due brani che distrugge tutta la logica musicale ma questo, evidentemente, a Baremboim non interessa più di tanto.

Per quanto riguarda i cantanti, messi in evidente difficoltà da questa sorta di poema sinfonico straussiano evocato dal sottofondo orchestrale, l’ unico che abbia offerto una prestazione decorosa è stato il basso coreano Kwangchul Youn, come sempre cantante molto corretto e professionale anche se il suo Rocco mancava un po’ di quella bonomia paterna che il personaggio richiederebbe. Pessimo il Pizarro di Falk Struckmann, che ha urlato per tutta la serata con una voce ormai logora e stimbrata, e non molto migliore Peter Mattei come Don Fernando, anche lui apparso vocalmente molto in declino. Puramente e semplicemente non pervenuti Florian Hoffmann come Jaquino e la Marzelline di Mojca Erdmann, vocalmente filiforme, acida e spesso abbondantemente stonata. Anja Kampe, abbigliata dalla regia come una specie di Bridget Jones travestita da idraulico polacco, non possiede semplicemente i requisiti vocali e tecnici necessari per il ruolo di Leonore, soprattutto in un contesto orchestrale di questa pesantezza. Per tutta la serata, la Kampe ha letteralmente lottato con le note nel vano tentativo di venire a capo della parte. Superate a stento le arcate vocali di “Komm, Hoffnung”, con suoni acuti forzatissimi e note gravi ventriloque, il soprano di Zelle ha cantato il resto dell’ opera con una voce opaca e stimbrata, che letteralmente annegava nel magma sonoro suscitato dalla bacchetta. Di livello anche inferiore, se possibile, il Florestan di Klaus Florian Vogt, dalla voce falsettante, stonacchiante e artificialmente sbiancata, con un effetto ai limiti della parodia. E qui è meglio fermarsi, perché l’ aria di Florestan eseguita in questo modo poteva dare origine a tutta una serie di battute pecorecce che non è il caso di riportare…

Chiudiamo qui, perché non mi sembra il caso di aggiungere altro. Per obiettività di cronaca va comunque detto che lo spettacolo è stato accolto da un franco e incontrastato successo di pubblico. Permettetemi però una malignità: il trionfo era dovuto al fatto che la gente ha apprezzato l’ esecuzione oppure gli spettatori hanno applaudito perché la maggioranza di loro ascoltava l’ opera per la prima volta? Scusate, ma qualche dubbio al riguardo mi viene…



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