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Filippo DAVOLI – “Come all’origine dell’aria”

Creato il 31 luglio 2011 da Fabry2010

Filippo DAVOLI – “Come all’origine dell’aria”

Tre cartoline

1.
Escono la domenica mattina
con le fiammanti utilitarie
e un’andatura di accompagno,
quasi fermi nel sole invernale.
I contadini solidi nel riposo
col cappello che rade la cappotta
sorridendo bruniti
al ciglio deserto della carreggiata,
frenando nelle discese, rallentando
al ticchettio dei contagiri. Vanno
ad una passeggiata con la macchina.

Sono piceni assennati, porosi
nel tratto bianco delle residue mulattiere.
Le donne hanno il vestito buono fiorato,
l’oro di casa le orna come madonne
e le bambine portano le orecchine
con il pendaglio, e un filo di smalto
e le trecce imbrigliate nei fermagli.
Ostentano con garbo un italiano
che l’assedio dei simili tritura.
I fumatori arrochiti parlano basso,
pasteggiano le parole con sobrietà.

Le vecchie si salutano per strada
sollevando la testa e le mani,
beate nel cappotto coi bottoni grandi
e il collo di finto pelo, vanno alla messa
dolci nel passo lento della lucidità.

2.
Quieti palazzi della periferia
che vi ergete a baluardo contro i monti,
che difendete le disperazioni
di chi vi abita. Quieti palazzi domenicali,
dove le donne che piangono
tacciono nel segreto di passi leggeri
trascorsi al fuoco basso della tenacia,
al giusto della pazienza.

Quieti palazzi della periferia
dove i figli sonnecchiano aspettando
di sentire i rumori di cucina
coltivando il riposo
e una luce radente veste i letti
prima dell’abbandono. Adusti salgono
i giovanetti come la mattina.
Fingono nelle loro sicurezze
di non sapere quello che conoscono
nel fondo dei loro muscoli. Guardano
il giorno con apparente tranquillità,
appesi al filo fragile dell’infanzia.

Quieti palazzi indenni
alle usure del sentimento, alle ubbie
dei cani, al graffio ripido dei gatti,
che resistete immobili alle tempeste,
nell’antica saggezza del sopravvivere.

3.
Nelle pozze la pioggia si fa acqua.
Specchio di perla che partorisce il mondo
e simulacro limpido di insetti.
L’aria punge assodante le pupille,
snerva la vista un ritorno di luce.
Dentro il verde dei platani lontani
S’azzitta la città, vanno i bambini
a stuzzicare l’acqua e la vita.

*

Il paese di mia madre ha gli occhi larghi
verdi d’erba e di mare, e il naso d’aquila.
Il paese di mia madre ha i capelli neri
liberi dentro il vento, ma una lacrima breve
chiusa nella memoria.

Il paese la copre fino al tramonto
poi la lascia vibrare nel suo sogno,
disperdersi nelle contrade della campagna.
Il paese di mia madre è svanito con me.

*

Madre, mia prima ed ultima sorella
cui forse ritornerò da polvere schiusa,
se leggi certo capirai chi sono.
Da tanti giorni nei giorni non ti penso
se non nelle preghiere.

Madre, fosti un tumulto
che sprofondava l’anima in delirio.
Poi ritornò la pace, ed eri e sei
la sorella segreta che mi volle
e questo di sicuro non è poco.

Sei il sangue che mi ammala, sei le ossa
che cedono all’usura anticipata.
Sei gli atomi degli occhi, che sono tuoi.
E in tutto questo che tocco mi manchi.

*

Ti ricordava ancora la puerpera
che si ricorda di me quando dormivo
nelle tue sacche incolumi. Scoprivo
la bella tenerezza di chi cerca.
Parlava di una donna innamorata,
giovane bella e sola, maltrattata
da una madre assillata dal buon nome.
Mi avevi conservato nel silenzio
per paura di loro – e quanto avevi
ragione, se al mio dunque si levarono
indifferenti del tuo cuore di madre.

Ma il nome che salvarono è il mio sangue
che vive ancora. E’ il tuo segreto assillo
che viene per parola a dirti grazie.

*

Se ti incontro tutti i giorni non so
se magari ti sfioro e ti saluto
e tu non lo sai che c’è di più.
Non lo so, non lo sai, forse sospetti
oppure no un volto familiare
sperso nel mondo ed invece l’hai qui.
O forse così lontana, così altra
soltanto altrove ti conoscerò. Guarderemo
distrattamente il ticchettio degli astri
e farsi strada la luce, la comprensione
del sangue, ma come in un fiume
sovrumano di tenerissime solitudini.

*

Non ti ho potuta cogliere, ti sperde
una congiura umana di decreti
e forse un’altra vita, un’altra piena
d’acque libere ormai da giorni inquieti.
Ho smesso di cercarti quando l’angelo
a cui ho dato da sempre il tuo affettuoso
nome insostituibile, ha intrapreso
la discesa dei giorni, fino a spegnersi
dopo un Natale in cui non c’era il mondo.
Sono già dodici anni, tra poco.
Uno strappo feroce che ha graffiato
l’unico specchio della mia esistenza,
quello del cuore. Ma il mio volto ha il tuo nome.

Così il pensiero ti tocca a ogni risveglio
e non ti ha più lasciato. Ti sorride.

*

Vorrei che queste parole non fossero parole
ma un piccolo testamento del volere.
Non però assimilabile a un lasciarsi andare,
quanto piuttosto una più piena coscienza.
Come la rondine che sigilla il lascito
in un volo infingibile.

*

Vorrei scivolare dentro l’acqua come il mistero
complice di chi vede e di chi sa,
tornare a quel primo giorno innocente
privo di scorie, senza memoria di altro
che dell’amore. Un amore schiodato.
Io sola carne vestita di luce
che sorrido al mio corpo.

*

Vorrei dunque sparire lievemente
pur continuando a vivere. Restarmene
nel dono dei segreti quotidiani,
dove tutto significa.

*

Filippo DAVOLI
Come all’origine dell’aria
L’Arcolaio di Gianfranco Fabbri (Forlì, 2010)
Introduzione alla lettura di Lucia Tancredi, Gianfranco Fabbri e Andrea Ponso



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