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Fine del sogno argentino?

Da Aurita1 @francescofilini
argentina-vulture-protest-largedi Claudio MarsilioTorna alla ribalta la vicenda del debito pubblico argentino e lo spettro del default, evitato solo pochi anni fa da una rinegoziazione con i creditori e da una politica di risanamento che pareva aver rimesso in salute lo stato sudamericano.L’economia argentina è cresciuta in pochi anni a ritmi “cinesi”, sganciandosi dall’equiparazione del dollaro ed adottando politiche protezionistiche negli scambi con l’estero.1peso1dollaroDiventata in poco tempo la beniamina dei paesi “non allineati” alle politiche d’austerità del FMI, oggi ritorna ad inquietare per la sua insolvibilità.Su tutti i giornali rimbalzano notizie su un possibile crack a fine giugno, a causa del mancato pagamento degli interessi ad alcuni fondi speculativi.Su “Il Giornale” il sottotitolo più imbarazzante:”Per la seconda volta in 13 anni il Paese rischia di non pagare i debiti. Dopo il default del 2001 si parlò di ripresa modello. Ma era un bluff“.

Un bluff?

Da come scrivono certuni giornalisti, pare quasi un sollievo per loro che l’Argentina non ce l’abbia fatta, o che possa non farcela. Questa sua ostinazione a non voler seguire i dettami della Dittatura Finanziaria, la sua capacità di rinunciare ai ricatti del Fondo Monetario Internazionale (“Non vi faremo più credito!“), le sue politiche protezioniste in ambito economico.

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Ricordiamo en passant qualcuna di queste riforme, che non sarebbe male adottare anche da noi: ha costretto gli investitori esteri a produrre in patria, come nel caso della Samsung, che ha dovuto assemblare i suoi portatili in Patagonia; “ha costretto la RiM (Research in Motion, multinazionale) – se non vuol perdere il mercato argentino – a produrre e ad assemblare in Argentina i suoi Blackberry, anche se il costo del lavoro è 15 volte superiore a quello asiatico. Vi è riuscita imponendo delle quote, ossia dei limiti, a queste importazioni al 20% del mercato. Altre misure hanno mirato a ridurre la dipendenza estera di certi settori, dagli elettrodomestici al tessile e ai giocattoli. In quest’ultimo caso, la produzione locale è passata dal 5% dei consumi nel 2003, al 30% di oggi, e il governo punta a diminuire le importazioni del 45%. Come? Con una tassazione delle importazioni, e se non basta, con puri e semplici divieti: per esempio, è oggi illegale importare le bamboline Barbie, che si dichiarano americane, ma che sono fabbricate in Cina. Nell’Argentina d’oggi, un’impresa è considerata straniera (e quindi soggetta a quote e dazi) dal momento che il 25% del suo capitale è detenuto all’estero. A certe aziende che importano prodotti di lusso – come la Nordenwagen, che vende le Porsche – è stato imposto di sviluppare in cambio attività da esportazione (nel caso, nel settore agricolo: vino, frutta, ortaggi).Il governo ha recentemente posto limiti all’acquisto di terre da parte di stranieri. Ciò ha colpito (occorre dirlo?) la Cina, che ha risposto con ritorsioni, ponendo una sovrattassa all’olio di soia argentino.” (http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=65047&Itemid=141).

In più, non va sottovalutata la capacità del popolo argentino di fare solidarietà e fronte comune, come fece con la creazione di più di 14 monete complementari che ebbero il merito di riavviare quantomeno il processo virtuoso dell’economia domestica.

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Grazie a queste coraggiose scelte, il 31 dicembre del 2013 Cristina Kirchner potette recarsi presso la sede del FMI con un assegno di 12 miliardi di dollari, con cui saldava il proprio debito; con immensa soddisfazione dichiarò: «Con questa tranche, l’Argentina ha dimostrato di essere solvibile, di essere una nazione responsabile, attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i propri soldi. Nel 2003 andammo in default per 112 miliardi di dollari, ma ci rifiutammo di chiedere la cancellazione del debito: scegliemmo la dichiarazione ufficiale di bancarotta e chiedemmo dieci anni di tempo per restituire i soldi a tutti, compresi gli interessi. Per dieci, lunghi anni, abbiamo vissuto nel limbo. Per dieci, lunghi anni, abbiamo protestato, contestato e combattuto contro le decisioni del FMI che voleva imporci misure restrittive di rigore economico sostenendo che fossero l’unica strada. Noi abbiamo seguito una strada opposta: quella del keynesismo basato sul bilancio sociale, sul benessere equo sostenibile e sugli investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, investendo invece di tagliare. Abbiamo risolto i nostri problemi. Ci siamo ripresi e siamo in grado di saldare l’ultima tranche con 16 mesi di anticipo.
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Le idee del FMI e della Banca Mondiale sono idee errate, sbagliate. Lo erano allora, lo sono ancor di più oggi. Chi vuole operare, intraprendere, creare lavoro e ricchezza, è benvenuto in Argentina: siamo una nazione che ha dimostrato di essere solvibile, quindi pretendiamo rispetto e fedeltà alle norme e alle regole, da parte di tutti, dato che abbiamo dimostrato, noi per primi, di rispettare i dispositivi del diritto internazionale» Un precedente pericolosissimo per la Grande Usura che strozza i popoli. Uno Stato che si rifiuta di essere il semplice riscossore del mondo finanziario, che non tassa i cittadini per pagare un debito da emissione monetaria, ma per erogare beni e servizi e produrre ricchezza per sé ed i propri cittadini, va bastonato. Torna alla memoria la massima di Ezra Pound:”Una nazione che non si indebita fa rabbia agli Usurai!“ E ci ha pensato uno squalo della finanza apolide: nonostante l’accordo planetario firmato a New York tra i 92% dei creditori del debito argentino, che accettarono di essere ripagati in misura ridotta, solo pochi si rifiutarono.
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Fra questi, l’Elliott Capital Management, con sede nelle Cayman, dell’ebreo miliardario Paul Singer, noto finanziatore della campagna elettorale di Mitt Romney. Adite le vie legali presso un tribunale di New York, si è visto dare ragione dalla Corte Suprema in questi giorni, dopo una serie incredibile di azioni, tra cui quella del pignoramento della fregata argentina al largo delle coste Ghanesi ( un paese estraneo alla vicenda che entra nella diatriba giuridica tra uno stato ed un privato, eseguendo un atto che ha tutti gli effetti del sequestro ): il debito va onorato quindi al 100% del valore nominale, pari passu con quello dei creditori che hanno accettato la ristrutturazione. “La sentenza è innovativa – o eversiva – perfino della legge americana: secondo le normative sui fallimenti vigenti in USA, basta l’accordo del 70% dei creditori. Questa obbliga al 100%. Siamo dunque a questo: la speculazione più parassitaria «fa diritto» contro la sovranità degli Stati. Una entità piratesca, domiciliata nelle isole dei pirati, è il motore di una nuova legalità. A favore assoluto dei creditori, vietando ogni difesa dei debitori, l’antico privilegio sovrano del ripudio del debito quando diventa – per la sua enormità a causa dell’accumulo di interessi composti – illegittimo.” (http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=207997&Itemid=141) Benvenuti nell’era del diritto del Caimano. Twitter @ClaudioMarsilio

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