Un anno dopo
A un anno di distanza da La Redenzione del Samurai (Le Storie n. 2, novembre 2012), il duo Roberto Recchioni-Andrea Accardi ritorna sulle vie del Bushido e fa sprofondare, di nuovo, il lettore nelle fascinazioni del periodo Edo.
Attraverso questo episodio scopriamo che il ciclo giapponese de Le Storie, iniziato appunto nel secondo numero della serie, si svolge in una sequela narrativa connessa, anche se ogni capitolo può tranquillamente essere letto come opera a se stante. La sensazione è, però, che questo episodio illumini di nuova luce anche l’avventura precedente, arricchendola di significati, oltre che di suggestioni, che erano rimaste inespresse nel primo capitolo. La regia di Recchioni, in questo secondo cimento, si presenta in punta di piedi, non si limita a una sceneggiatura essenziale e lascia che a parlare siano soprattutto i disegni di Accardi.
Ichi e Nagaima
Il primo capitolo si concludeva con l’immagine dell’enigmatico Ichi, in compagnia del suo allievo Tetsuo Kogawa, all’inizio di un sentiero dalla meta sconosciuta e destinata a rimanere tale. Questo secondo capitolo non riparte da quel cammino appena approcciato; al lettore, a cui rimangono oscuri i destini di Tetsuo Kogawa, viene però riproposta la figura affascinante eppure indefinibile di Ichi, verosimilmente il personaggio incaricato a sostenere la continuità narrativa del ciclo.
I passi di Ichi s’incrociano con quelli di Jun Nagaiama, giovane e splendida ragazza, volta al suicidio a seguito del harakiri del proprio padre, nobile consigliere del Daimyo (1), eseguito per protesta contro la corruzione esistente nella corte.
Si può notare come ritornino due ingredienti che avevano costituito materia di narrazione nel primo capitolo: l’abnegazione nell’offrire la vita per rispetto di un codice morale e la corruzione che dilaga nella corte feudale. E c’è ancora Ichi che qui ingigantisce il proprio ruolo assurgendo a vero e proprio deus ex machina della vicenda.
L’incontro con Ichi rappresenterà, per Jun Nagaima, la sua salvezza, ma anche la causa dello stravolgimento del proprio essere. L’indefinibile maestro asseconderà la brama distruttiva che divora la ragazza. Attraverso lo sgraziato mentore saranno forniti a Jun Nagaima tutti gli strumenti necessari a distrarre la propria devastazione interiore da intenti autolesionistici per rivolgerla contro gli individui che hanno distrutto i suoi genitori e la sua innocenza.
Ichi contribuirà a trasformare la ragazza in un essere spietato e senza più anima, una vera e propria Kunoichi (2), ovvero una professionista dell’omicidio, pronta a servirsi, per raggiungere il suo scopo, di tutte le armi a propria disposizione, anche di quelle inerenti il proprio corpo, la propria sessualità.
Le figure dei fiori
L’arte di Accardi è un contrassegno che rende l’opera splendida. In questo volume le tavole del disegnatore raggiungono un ulteriore step evolutivo, rispetto al precedente episodio, arricchendosi di segni grafici che dipingono un mondo talora vivo e pulsante, talora statico, cristallizzato in una bellezza perfetta.
Accardi eccelle tanto negli scenari quanto nella definizione di volti ed espressioni. Il disegnatore usa con sapienza tutti gli strumenti che la sua arte gli mette a disposizione. Solitamente si serve di una linea estremamente sottile e piatta. Quando intende riprodurre scenari il suo tratto si presenta chiaro e pulito. Molto spesso l’artista arricchisce la sua linea chiara di una infinità di minuscoli tratteggi, finalizzati a rendere percepibili i più minuziosi particolari e, anche, le diverse luminosità. Nonostante che la materia l’obblighi a servirsi di due sole tonalità (il bianco e il nero), Accardi restituisce inimmaginabili nuance: quasi le medesime offerte dalla luce del giorno o dai chiaroscuri notturni. Attraverso minuscoli segmenti di china l’artista realizza virtuosismi assoluti, come quando riproduce la pioggia che cade, fitta e sottile, a volte, rada e copiosa in altre occasione, sempre perfettamente percepibile agli occhi del lettore, assieme alle atmosfere che evoca.
Anche se è l’uso delle linee ad essere preponderante, Accardi, per rendere tutte le atmosfere (ad esempio il calare delle ombre della notte sul paesaggio), non disdegna di contaminare le sue tavole di sfumature con la tecnica del chiaroscuro a carboncino (p. 16).
Attraverso le sue linee, incisive e nitide, l’artista riesce a rendere non solo credibili, ma anche emotivamente suggestive tutte le fisionomie dei protagonisti, avvalendosi, in questo, di inquadrature e prospettive assolutamente inconsuete. È doveroso sottolineare l’arte con cui Accardi tratteggia, avvalendosi anche di pose assurde, i volti più grotteschi dei protagonisti, Ichi compreso.
Negli attimi d’azione repentina dei combattimenti, nel contesto figurativo diviene preponderante la componente vettoriale. L’artista si serve sapientemente di linee cinematiche che rappresentano l’essenza del movimento, enfatizzando la crudeltà e la velocità del gesto, con una continuità tra posa e azione che evidenzia la dinamica della traiettoria.
Eppure, a volte, le tavole di Accardi sono sporcate in maniera impropria. In alcune occasioni (p. 64, p. 66), un evidente retino prende il posto della tessitura, stravolgendo l’unità stilistica dell’opera. Dal momento che la retinatura non si usa più nei moderni procedimenti tipografici è evidente che si tratta di una scelta stilistica, per quanto discutibile. In effetti le tavole che vanno da pagina 64 a pagina 66 sono disomogenee rispetto a tutte le altre. Al pari di queste, anche altre tavole sembrano essere state realizzate da un disegnatore privo dell’abilità stilistica di Accardi. La figura di p. 44 è sgraziata, le anatomie sono innaturali, il segno è approssimativo e anche le tavole immediatamente precedenti non sono adeguate al resto dell’opera.
Le fascinazioni dell’opera
Alla conclusione della lettura rimane nell’animo e nella mente un’inafferrabile percezione di bellezza mista a una sconvolgente quanto inquietante crudezza. Sensazioni che sussistono vivide, per quanto complicate da analizzare razionalmente.
Ma cos’è che rende questo lavoro tanto affascinante?
Non la trama che, se togliamo tutti gli orpelli, è scabra, essenziale. Non è neanche il disegno, maestoso in alcune tavole, ma in alcuni passaggi veramente povero, come appena detto.
E allora cos’è che affascina?
E’ quella capacità di portare il lettore all’interno di un mondo assolutamente esotico, che si presenta alieno addirittura, all’apertura dell’albo. Hanno la capacità, sceneggiatore e disegnatore, mai come in questo albo uniti negli intenti e nei risultati, di far entrare il lettore all’interno di una stampa giapponese e del mondo che quella riproduce. Quest’albo possiede il dono di far sprofondare il lettore in atmosfere, scenari, universi emozionali, da cui, man mano che va avanti con la lettura, si sente circondato, di cui si sente parte integrante. Il processo si forma attraverso tutta una serie di componenti assolutamente funzionali. Elementi che forse si sono combinati per caso come in una perfetta alchimia neppure razionalmente ricercata dagli autori. L’esordio, per i luoghi, le situazioni, i dialoghi, è una perfetta piece teatrale. Non importa quante volte abbiamo visto quella scena, quella della fanciulla che sta per togliersi la vita: l’arte universale ripropone archetipi arricchiti di nuove straordinarie sfumature. La sensazione di essere all’interno di una scena teatrale non si perde quasi mai. In tal senso si giustifica anche la linearità della trama che riesce quasi a rispettare le tre unità aristoteliche (tempo, luogo e azione). Il fascino della classicità che invade e si permea con l’esotismo dell’ambientazione è fattore di incantamento per chi legge.
E’ evidente che alcune scene sono prese par pari da stampe giapponesi del ’700/’800 (3), ma, si badi bene: nell’albo le citazioni non esistono!
La citazione è la strizzatina d’occhio, l’inserimento di un elemento contraddistinguibile nel contesto omogeneo. Qui no. Il mondo in cui entriamo è assolutamente coerente, ogni pezzo è un mosaico che si incastona con altri analoghi, senza soluzioni di continuità. E sono tessere tutte quante splendide, perché i pezzi sono i medesimi che hanno incantato tanti pittori dell’Ottocento, fino a diventare materia di una vera moda/ossessione: il giapponismo. In una tavola si intravede la cortigiana di Van Gogh. In altre c’è Monet, Manet, persino Klimt. E allora si scopre che gli autori ci stanno accompagnando in un viaggio che non attraversa il Giappone antico, bensì le suggestioni del Giappone viste nel filtro della sensibilità artistica occidentale.
E c’è la tragedia antica, immersa in un’atmosfera esotica. È quel che fa titillare le corde del cuore e della mente, perché rievoca qualcosa di grande ma di indefinito, frettolosamente incontrato e poi smarrito nei meandri della memoria.
L’esotismo e la classicità sono continuamente evocate dagli haiku, disseminati e ben mimetizzati qua e là nel testo. È la fraseologia (leggermente modificata) dell’haiku del poeta Hatsuo Basho (1644-1694) che apre il racconto: “Stagione delle piogge/ i miei capelli di nuovo/ intorno al pallido viso”.
Al classico, all’esotico si aggiunge il mito, incarnato da Ichi, vero e proprio elemento coagulante della storia (oltre che trait d’unione con la storia precedente). Sgraziato, bizzarro, forse incomprensibile, Ichi è il destino che ti conduce a tua insaputa verso quel che deve essere, è l’inevitabile karma. Ma è anche il buffone scespiriano, elemento incontrollabile che ha un piede dentro e l’altro fuori dalla scena.
Ma l’opera è importante anche perché rappresenta uno spostamento in avanti dei limiti bonelliani per quel che riguarda i paradigmi di ciò che è lecito dare alle stampe. Quest’albo, infatti, registra un deciso allentamento dei vincoli moralistici in casa Bonelli.
La crudezza, seppure non gratuita, è davvero insolita: alcune scene rasentano la pornografia, mai vista nella produzione SBE. Oltre alle scene saffiche, compare a pagina 53 una rappresentazione chiaramente pornografica, in senso propriamente etimologico in quanto raffigurazione esplicita di un atto sessuale, al di là dei centimetri di nudità (in verità molto pochi) mostrata. In sostanza tutto l’albo è percorso da un’atmosfera di fatale decadenza morale ed esistenziale che molto ricorda l’opera cinematografica di Nagisa Ōshima (4).
Conclusione
Dall’analisi di questo quindicesimo appuntamento con Le Storie, emerge come le sinergie dei due autori abbiano trovato un perfetto equilibrio. La prudenza di Recchioni nel mantenersi nei limiti e nel lasciare la parola all’arte di Accardi ha portato a una perfetta sintesi tra scrittura e disegno, con risultati assolutamente efficaci, forse anche al di là delle aspettative dei due autori.
E, questa volta, non si può che dare completa ragione a Recchioni che nel suo blog ci dice:
“… personalmente, lo ritengo la cosa migliore che ho fatto in vita mia ma, fosse pure stato scritto con i piedi, non importerebbe perché Andrea ha raggiunto un tale livello di eccellenza nel disegno e nella narrazione per immagini, da sublimare qualsiasi carenza del testo.”
E ancora su Accardi:
“Se volete vedere un maestro in piena attività e al suo apice, date uno sguardo alle sue tavole”.
Siamo indotti a pensarlo anche noi.
Abbiamo parlato di:
Le Storie #15: I fiori del massacro
Roberto Recchioni, Andrea Accardi
Sergio Bonelli Editore, 2013
114 pagg, brossurato, bianco e nero – 3,50€
ISBN: 9772281008006
Note
- Signore feudale [↩]
- “Noi siamo Kunoichi… i fiori avvelenati!”, p. 39 [↩]
- È facile il paragone con Utagawa Hiroshige (Tokyo, 1797-1858), uno dei più grandi artisti giapponesi del XIX secolo [↩]
- Regista e sceneggiatore giapponese (1932-2013), conosciuto in particolare per gli “scandalosi”: Ecco l’impero dei sensi, 1976; L’impero della passione, 1978. [↩]
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