Neanche 2.000 visualizzazioni per questo pezzo su YoutTube (almeno 500 saranno mie) mentre Mannarino scrive racconti di merda e il Fatto Quotidiano glieli pubblica senza battere ciglio e ieri sera ho abbracciato Flavio Giurato che ha suonato 2 ore per 30 persone.
“Italia, vaffanculo!” è l’unica cosa che mi sembra dotata d’un qualche senso da poter dire adesso, the day after Flavio Giurato, e chi ama la sua musica sa che impatto viscerale rechino in sè le sue canzoni.
Quanto ho sognato stanotte dopo questo suo concerto. Sogni bellissimi, enormi!
Eppure a voi che vi importa, voi che continuate a sentire le vostre stronzate e siete contenti, voi che arriva un ragazzino lanciato da un mito dell’underground italiano che sa a malapena suonare la chitarra, non sa cantare ma ha qualche idea carina e voi lo eleggete a cantore delle vostre insulse sofferenze post moderne, gli fate vendere migliaia di copie, lo mandate in teatri fra i più belli d’Italia, dove un tempo ci andavano personaggi di ben altra statura riempiendo sempre lo stesso numero di seggioline, e allora il cuore mi fa un tonfo, penso che allle persone che affollavano quel teatro in passato e a quelle che lo affollano oggi, allo scarto d’arte che corre tra solo due generazioni, a cosa questa generazione darà mai esito, se già la precedente pur con tutta quell’abbondanza ha fatto così tanti danni.
Forse domani un novello Flavio Giurato non avrà il coraggio di continuare, non arriverà nemmeno ad incidere. E sarà tutta colpa vostra, perchè una dittatura, e questa è una dittatura culturale, senza sudditi non può realizzarsi. Ecco perchè l’Italia è un paradiso delle visioni autoritarie, perchè è un allevamento intensivo di sudditi.
Sai cosa vi dico? No, è bene che questa roba, questa musica sia cosa di pochi. Comincio a pensarla come Carmelo Bene. L’arte degli altri uno se la deve guadagnare, non è che la può trovare dopo un par di click su internet. Ci vuole fatica, ci vuole un tirocinio devoto. Ma lo dobbiamo fare per il lavoro (giustamente, è sbagliato che non sia minimamente pagato semmai) figuriamoci se non serve per l’arte, il tirocinio. No, oggi a quattordici anni insieme allo scooter c’è anche la chitarra, se non è arrivata prima. Tutti musicisti, tutti! Tutti scrittori, tutti registi…E nessuno ascolta, legge, osserva più niente.
Foto di Gabri Pallide Stragi
Ierisera Flavio Giurato era al Nuovo Camarillo a Praho, cioè Prato, un locale piccolo e caldo, casalingo, nel senso migliore del termine: ci si sente a casa. Ho fatto un casino per poterci essere: mi sono affidato a un appello sulla pagina dell’evento di FB per trovare un passaggio di ritorno a Firenze, che il primo treno della magnana sarebbe stato alle cinque e trenta, mica bene. Passaggio trovato, sui trenta presenti tre offerte di passaggio, lo staff del locale che rilancia ovunque l’appello, una solidarietà che non si conta altrove, non è un caso che si tratti di un concerto, di un cantautore visceralmente onesto. Chi lo ama ha necessariamente il cuore puro e sa ancora prestarsi a slanci di quotidiana umanità (mica mi hanno donato un rene, o meglio non ancora).
Flavio arriva e prende posizione a poco meno delle undici e trenta, parte con “Valterchiari”, declama “Orbetello”, va di “Rondone”, il “Manuale del Cantautore” ed altre forse (no, sicuramente) non so in che ordine, sarebe come chiedere l’ordine dei colpi ricevuti a un pugile appena messo ko. Poi inizia a presentare brani tratti dal suo nuovo ed ancora inedito “La scomparsa di Majorana”, dedicato alla figura del misterioso e geniale fisico italiano, in particolare al libro omonimo scritto da Leonardo Sciascia e i brani si allungano, la curiosità dei presenti è viva, vivissima e le canzoni ricevono lo stesso calore dei brani storici benchè se ne differenzino per un coraggio espressivo ancora più accentuato del solito (stiamo parlando d’un campione di coraggio cantautoriale) e che con sola voce e chitarra forse eccedono un poco. Forse si avverte un poco di stanchezza da ambo le parti, io invece sono ancora ko e non mi ricordo neanche i nomi dei brani, mi ricordo frasi ripetute (marchio di fabbrica imperituro del nostro), immagini, applausi, note. Prima pausa, si va di sigaretta per tutti e si butta fuori un poco d’aria.
Flavio ritorna, termina “La scomparsa di Majorana” con altri pezzi notevoli, in particolare l’ultimo conclusivo che raccoglie tutti i precedenti frammenti, Flavio parla di Land Rover inglesi, di Slabrador, di donne che ci riconoscono e della timidezza che si cela dietro a uno sguardo innamorato ed a un mondo davvero bastardo, fatto di codici a barre e manicomi e che non accetta il gioco sincero dei bambini, l’ingegno naturale dei contadini. Scorrono donne, strade, città (Napoli, Palermo e tanta, notturna, Roma). Flavio dice che così bene quelle canzoni non gli erano mai uscite, che a Roma ridono tutti mentre qui regnava un gran silenzio, ma gioca un tiro sinistro, dice che è finita. Tutti pensano “col cazzo”, incitano e applaudono, Flavio fa un’altra piccola pausa poi torna a sedersi. E la parte conclusiva è da spaccacuore.
“Centocelle”, “L’ufficialino”, “Silvia Barardini”, “Marco e Monica”, “Il Tuffatore”, “La Giulia Bianca”, ed immagino che chi sta leggendo e ama la musica di Flavio stia cadendo dalla sedia quanto io sono caduto sulla sedia quando Flavio ha declamato l’introduzione in inglese di “Marco Polo”. Nel frattempo un paio di stronzi parlano rumorosamente al bar, tra i maniaci assetati di musica alcuni si girano e guardano male malissimo, altri fanno piccolo “sssss”, altri sono totalmente imbambolati. Flavio insiste, poi dopo due ore epiche cede, siamo tutti davvero stanchi e io corro a stringere la mano, abbracciare, balbettare qualcosa a quell’uomo alto e magro di grande presenza scenica che risponde con sorrisi sinceri, chiacchiere comuni. Si avverte la reciprocità della riconoscenza, sincera e calorosa, Marco poi firmerà autografi ai pochi presenti con il simbolo di “Marco Polo” stilizzato a penna, dicendo anche che se la prossima volta ha un piano per le mani potrà suonarlo dall’inzio alla fine, io poi mi trascinerò per una Prato deserta alla macchina dei miei nuovi amici e appunto, sognerò tantissimo, fino a farmi uscire il sangue dal naso, come cantava De Andrè nel “Fiume Sand Creek”.
Sono ancora incazzato come all’inizio del post, dai forse un po’ meno, e vorrei uccidere gli ignoranti uno ad uno, poi ripenso a ierisera, a un cantautore che si è donato a un gruzzolo di maniaci delle sue canzoni senza curarsi di quelle persone che parlavano al bar con le spalle girate, e capisco che il motivo per cui queste persone sono così profondamente autentiche è perchè se ne sono sempre fregati di cosa pensa la gente, e che io ho ancora da imparare tanto, tutto.
Serenamente vi dico, con in sottofondo “Il Rondone” da almeno mezz’ora, musicoterapia purissima: ascoltate quello che vi pare, sceglietevi la vostra musica.
Io la mia scelta l’ho fatta da tempo.
“Basta ricordare di appiattire dopo l’uso”.
Ma io con queste canzoni proprio non ci riesco.