Magazine Società

For the Win, di Cory Doctorow – Parte 2, Scena 3 (2 di 3)

Creato il 14 agosto 2011 da Newfractals @NewFractals

For the Win, di Cory Doctorow – Parte 2, Scena 3 (2 di 3)

Continua da For the Win, parte 2, scena 3 (1 di 3)

Dove andare ora? Era stanca, affamata, arrabbiata ed esausta. A casa? Era ancora pomeriggio, per cui sua madre e i suoi fratelli erano tutti al lavoro o a scuola. Quel vuoto… la spaventava. Non era abituata a stare da sola. Non era una condizione naturale a Dharavi. Aveva molta sete, il vento soffiava i fumi della plastica nei suoi occhi e sulla sua faccia, inaridendo gola e narici. Nel Café della signora Dibyendu ci sarebbe stato del chai, la signora Dibyendu gliene avrebbe dato una tazza e le avrebbe dato a credito un po’ di tempo sul computer, perché la signora Dibyendu stava cercando disperatamente di salvare il suo locale dalla bancarotta, ora che l’esercito l’aveva abbandonato.

Il nipote idiota della signora Dibyendu le diede una tazza di chai a malavoglia. Non aveva imparato nulla dal pestaggio selvaggio di Mala. Rimaneva ancora troppo vicino, faceva ancora “Eve-teasing”  con la sua banda di poco di buono. Yasmin sapeva che lui desiderava ardentemente vendicarsi di Mala, e che Mala non girava mai dopo il tramonto senza tre o quattro dei ragazzi più grossi dell’esercito. Era una cosa che la rendeva furiosa. Non importava quando Mala la avesse ferita, aveva comunque il diritto di andare in giro vicino a casa sua senza timore di questo idiota. Le labbra di lui ormai erano permanentemente arricciate in un ghigno, grazie alla cicatrice che il piede di Mala aveva lasciato dietro di sé.

Yasmin si sedette al computer, loggandosi. Era certa che il nipote idiota usasse ogni genere di malware per spiare quello che facevano sui computer, ma lei aveva comprato un token di autenticazione in uno dei negozi sui margini di Dharavi, era fantastico, la loggava con una password diversa ogni volta, così che il suo account di PayPal e quelli dei giochi fossero al sicuro.

Senza pensare, riprese la sua solita routine. Loggò su Minerva, cercò missioni di protezione degli Webbly nei mondi in cui giocava. Ma non c’era nessuna missione ad aspettarla. I feed degli Webbly erano infuocati di discorsi sullo sciopero a Shenzhen, voci sul numero degli arrestati, sul numero di sparatorie. Guardava i discorsi scorrere davanti a lei inerme, chiedendosi da dove venissero tutte queste voci. Tutti sembravano sapere qualcosa che lei non conosceva. Come facevano a sapere queste cose?

Un messaggio diretto apparve sul suo schermo. Era da un estraneo, ma era in uno dei gruppi di affinità Webbly più interni, il che voleva dire che Sorellona Nor, Il Possente Krang o Justbob lo aveva manualmente approvato. Chiunque poteva unirsi al cerchio esterno degli Webbly, ma erano molti pochi ad essere in quello interno .

> Ciao, puoi leggermi?

Era una frase completa, con punteggiatura, e la domanda era la più stupida che si potesse immaginare. Era il genere di messaggio che poteva mandarle suo padre. Seppe immediatamente che era in comunicazione con un adulto, e uno che non giocava.

> si

> La nostra comune amica S.N. mi ha chiesto di contattarti. Sei a Mumbai, giusto?

Ebbe un attimo di esitazione. Questa era una maniera di scrivere molto da adulto, molto da non-giocatore. Forse era qualcuno che lavorava per i nemici? Ma Mumbai era grande quanto tutto il mondo. Dire di essere “A Mumbai” era di poco più specifico che dire “In India” o “Sulla Terra”.

> si

> Dove sei? Posso passare a prenderti? Devo parlarti.

> stiamo parlando ora lol

> Cosa? Oh, capisco. No, ho bisogno di PARLARE con te. Queste sono questioni ufficiali. S.N. mi ha chiesto specificamente di mettermi in contatto con te.

Lei inghiottì un altro paio di sorsate di chai, svuotando la tazza.

> ok

> Splendido. Dove posso passare a prenderti?

Lei deglutì nuovamente. Quando erano andati alla spiaggia, sua madre era stata molto chiara su questo punto: Non dire a nessuno che sei di Dharavi. per i Mumbaikar, Dharavi è l’inferno, un posto di tormento eterno, e quelli che ci vivono sono dei mostri. Questo adulto suonava molto rispettabile. Forse avrebbe pensato che Dharavi era l’inferno e l’avrebbe lasciata stare.

> ragazza di dharavi

> Un momento.

Ci fu una lunga pausa. Yasmin si chiese se lui stesse cercando di mettersi in contatto con Sorellona Nor, per dirle che il suo guerriero era una ragazzina degli slum, che era meglio cercare qualcun altro che li aiutasse.

> Conosci questo posto?

Le mandò l’immagine della moschea di Dharavi, alta e imponente, che incombeva sopra tutto il quartiere mussulmano.

> certo!!

> Sarò lì fra un’ora. Questo sono io.

Un’altra immagine. Questa non era di un uomo di mezza età in giacca e cravatta, come si sarebbe aspettata, ma di un giovane, poco sopra i vent’anni, con gel nei capelli e una giacca di cuoio, pantaloni alla moda e neri stivali da motociclista.

> Puoi darmi il tuo numero di telefono? Ti chiamo quando sono vicino.

> lol

> Scusa? Che vuoi dire?

> ragazza di dharavi — niente telefono per me

Aveva avuto un telefono quando era nell’Armata di Mala. Tutti avevano avuto un telefono. Ma era la prima cosa ad essersene andata via quando aveva lasciato l’esercito. Lo teneva ancora in un cassetto, non riusciva a sopportare l’idea di venderlo, ma non funzionava più come telefono, anche se a volte lei lo usava come calcolatrice (con suo disappunto, tutti i giochi che ci aveva scaricato si erano spenti nel momento stesso in cui era stata disconnessa dal servizio telefonico).

> Scusa, scusa. Certo. Troviamoci lì fra un’ora, allora.

Il cuore le batté forte in petto. Incontrare uno strano uomo, andare a fare qualche segreto incarico… Era il genere di cosa che finiva sempre in tragedie terribili, denigrazione e omicidio, nelle storie. E fra un’ora sarebbe stato…

> non si può alla moschea

Sarebbe stato nel bel mezzo dell’Asr, la preghiera pomeridiana, e la moschea sarebbe stata piena degli amici di suo padre. Sarebbe bastato che uno di loro la vedesse con questo strano uomo, con il gel nei capelli, un hindu a giudicare dal rakhi sul suo polso, che si intravedeva da sotto la manica della sua giacca di cuoio. Suo padre sarebbe impazzito.

> invece incontrami alla stazione di mahim dalle barriere di protezione.

Ci fu una pausa. Poi un’altra immagine: due ragazzi a cavallo di una grossa barriera di cemento di fronte alla stazione. Era dove lei e i suoi fratelli avevano aspettato mentre sua madre stava facendo i biglietti.

> Qui?

> si

> O.k. allora. Sarò su uno scooter Tata 620

Un’altra immagine di un piccolo scooter amorevolmente elegante, con un orgoglioso serbatoio porpora sulla sua intelaiatura cromata.

> sarò li

Diede la sua tazza al nipote idiota, senza neanche vedere la smorfia sulla sua faccia mentre avanzava velocemente, nella strada, poi fino a casa per cambiarsi e mettere un po’ di cose in una borsa prima che sua madre o i suoi fratelli tornassero a casa. Non sapeva dove stava andando o quanto a lungo sarebbe stata via, e l’ultima cosa che voleva era dover spiegare tutto questo a sua madre. Avrebbe lasciato un biglietto, uno dei suoi fratelli lo avrebbe letto a sua madre. Scrisse “Sono via per questioni di sindacato. Torno presto. Baci” e ciò doveva bastare, perché, dopo tutto, era tutto ciò che sapeva.

Nella lunga camminata fino alla stazione di Mahim, passò in continuazione da uno stato di estrema eccitazione ad uno di estremo panico. Tutto questo era folle, certo, ma era l’unica cosa che le era rimasta. Se Sorellona Nor garantiva per quest’uomo — maledizione! Non sapeva neanche il suo nome! — allora chi era Yasmin per dubitare di lui?

Mentre si avvicinava ai bordi di Dharavi, i vicoli si allargarono a diventare strade, larghe abbastanza da permettere a dei ragazzini magri e scalzi di giocare a cricket scavando delle piccole buche. Le urlarono contro delle cose “che offendevano la decenza”, come le definiva la sua maestra, la signora Hossain, quando dei ragazzacci si affollavano davanti alla scuola ed urlavano insulti alle ragazze mentre queste uscivano dalla classe. Ma sapeva come ignorarli e, in ogni caso, aveva preso il lathi di suo fratello Abdur, che stava usando come bastone da passeggio. Aveva legato la sciarpa di sotto di un hijab sulla sua cima, in maniera da farlo sembrare più innocuo. A scuola avevano fatto dei giochi ginnici con dei bastoni simili ai lathi, ma senza la punta in ferro. Nonostante ciò, era certa di essere in grado di brandirlo in maniera da incutere abbastanza paura da spaventare qualsiasi malintenzionato che le incrociasse la strada. Fu solo una volta arrivata alla stazione che si rese conto di non aver idea di come portarlo sul piccolo scooter.

Aveva portato con sé il proprio cellulare, solo per poter leggere l’ora, e adesso un’ora era passata e non c’erano segni dell’uomo con il gel nei corti capelli. Passarono altri venti minuti. Era abituata a questo: niente a Dharavi era in perfetto orario, tranne i richiami per le preghiere dalla moschea, i canti dei galli nel mattino, e l’adunata dell’esercito di Mala, che era sempre precisamente alla stessa ora, con dure punizioni per i ritardatari.

I treni andavano e venivano. Riconobbe alcuni uomini che conosceva: amici di suo padre che lavoravano nella vera Mumbai, che l’avrebbero riconosciuta se non fosse stato per l’hijab che lei aveva tirato in alto e bloccato in maniera da coprirle il naso. Era estremamente conscia degli sguardi dei ragazzi hindu. Ufficialmente, hindi e mussulmani non andavano d’accordo. In realtà, conosceva tanti hindu quanti mussulmani a Dharavi, nell’esercito, a scuola. I suoi genitori insistevano a chiamare la città “Bombay”, il vecchio nome della città prima che i feroci nazionalisti hindu lo cambiassero, proclamando che l’India era per gli hindu e solo per gli hindu. Lei e la sua gente potevano pure tornarsene in Bangladesh, in Pakistan o una qualsiasi delle roccaforti mussulmane dove erano la maggioranza della popolazione, lasciando l’India ai veri indiani.

Per lo più questa cosa non la toccava, perché, per lo più. incontrava solamente persone che la conoscevano e che lei conosceva — o persone che erano completamente virtuali e a cui importava di più se lei era un orco oppure un elfo del fuoco che se era mussulmana. Ma qui, sui margini del mondo conosciuto, lei era una ragazza con un hijab, una apertura che lasciava vedere solo gli occhi, un vestito modesto ed un solido bastone e tutti la stavano fissando.

Si mantenne impegnata pensando a come avrebbe potuto attaccare o difendere la stazione usando un numero di sistemi di armamento di giochi diversi. Se fossero stati tutti zombie, avrebbe piazzato i suoi Mecha lì, lì e lì, usando la zona infossata dei binari come un canale attraverso il quale attirare i combattenti nemici a portata di lanciafiamme. Se si fosse trattato di combattimenti su motociclette, avrebbe creato un cerchio in quella direzione con le automobili, là con le moto e avrebbe piazzato il camion-della-morte lì. Questi pensieri la fecero sorridere, un sorriso nascosto al sicuro del suo hijab.

Ed ecco l’uomo, che arrivava nello spiazzo con la sua motocicletta verde, ripulendo la polvere della strada dai suoi occhiali con un lembo della camicia prima di rimetterli nella giacca. Si guardò intorno nervosamente, osservando la gente fuori dalla stazione… lavoratori che fluivano in una direzione e nell’altra, bambini con le mani tese, alcuni che trasportavano bambini più piccoli. Persino fra i rumori della folla, Yasmin poteva sentire il loro pianti tristi ed esperti.

Portò la mano al mento e controllò che la spilla le tenesse ben fisso l’hijab al suo posto, poi si avvicinò al motociclista, attraversando i mendicanti come se non fossero stati lì. Quelli si allontanavano dal suo lathi come le mosche schivano una mano alzata. Il ragazzo era così sconvolto dai mendicanti che gli ci volle un minuto per notare la ragazzina velata di fronte a lui, che stringeva un metro e mezzo di bastone con la punta metallica.

“Yasmin?” il suo hindi era come quello di una star dei fillum. Da vicino era davvero carino, con denti dritti, dei piccoli baffetti ben tagliati ed un naso ed un mento solidi.

Lei annuì.

Lui guardò il suo lathi. “Ho alcuni cavi elastici”, disse. “Penso che potremmo attaccarlo sul lato della moto. E ti ho portato un casco.”

Lei annuì di nuovo. Non sapeva cosa dire. Lui si mosse verso il portabagagli chiuso sul retro della moto, spingendo via un piccolo bambino mendicante che stava mettendo le mani sul lucchetto, poggiò il pollice sul meccanismo di riconoscimento dell’impronta digitale. Si aprì di scatto e lui iniziò a rovistarci dentro, tirando fuori un casco che sembrava qualcosa uscito da un anime, aerodinamico, con complicati disegni carichi di colori giallo e rosa in bassorilievo sulla superficie. Sul davanti del casco c’era un adesivo di Sai Baba, il santo su cui mussulmani e indù andavano d’accordo. Yasmin pensò che fosse un buon segno — anche se era un ragazzo indù, le aveva portato un casco che lei poteva indossare senza andare contro l’Islam.

Lei prese il casco da anime di Sai Baba, notando che l’adesivo era olografico e che Sai Baba si girava per guardarla dritto negli occhi mentre lo sollevava. Era più pesante di quanto sembrasse, con uno spesso rivestimento interno. Nessuno a Dharavi indossava il casco in moto — e anche il ragazzo non ne stava indossando uno. Ma guardando lo stretto sellino, Yasmin pensò a cosa dovesse essere caderne mentre viaggiava a 70 chilometri all’ora in qualche strada di Mumbai e decise di essere felice che lui glielo avesse portato. Così annuì una terza volta e lo sollevò sopra la testa. Si infilò lentamente, la testa che si apriva la strada come una mano intrappolata in un lenzuolo, spingendo fino a riuscire ad infilarselo. Così si ritrovò dentro il casco, i suoni intorno a lei erano smorzati e distanti, la vista tinta di giallo dalla visiera a specchio. Provò a toccarsi la testa — la quale sembrava avrebbe dondolato in avanti sotto il peso del casco se avesse dovuto girarla troppo velocemente — trovò il blocco della visiera e la sollevò. I suoni divennero leggermente più acuti e chiari.

Nel frattempo, il ragazzo aveva attaccato il lathi al lato della moto, divertendo i mendicanti bambini, che avevano offerto consigli e prese in giro ridendo. Aveva un po’ di corde elastiche che aveva estratto dal portabagagli della moto e le aveva avvolte più volte intorno al bastone, trovando posti sull’intelaiatura cromata della moto dove fissarne i ganci, controllando di poter girare il manubrio. Alla fine grugnì, si alzò, ripulì le mani dalla polvere sui jeans e si voltò verso di lei.

“Pronta?”

Yasmin fece un profondo respiro, infine parlò: “Dove stiamo andando?”

“Andheri”, rispose. “Vicino agli studi cinematografici”

Lei annuì come se sapesse dove si trovassero. In un certo senso, ovviamente, lo sapeva: c’erano un sacco di film sull’età d’oro della produzione di film, quando Andheri era stato il posto giusto, alla moda e ribollente di vita. Ma molti di quei film erano su come il sole di Andheri era tramontato, con tutte le grosse case produttrici di film che se ne andavano via. Come sarebbe stato al giorno d’oggi?

“E quando torneremo?”

Lui scosse il capo, pensando “Per stanotte, di certo. Farò in modo che sia così. E alcune persone del sindacato potranno venire con noi e accertarsi che arrivi fino alla porta di casa sana e salva. Ho pensato a tutto”.

“E qual’è il tuo nome?”

Lui la fissò per un attimo, la bocca aperta per la sorpresa. “Ok, non ho pensato a tutto! Sono Ashok. Sai come guidare uno scooter?”

Lei scosse la testa. C’era un sacco di gente che andava su moto e su scooter, in due, tre, o anche quattro alla volta — qualche volta un’intera famiglia, i bambini in braccio alle madri sul retro — ma lei personalmente non c’era mai salita sopra. Stando vicina alla moto di Ashok, adesso, le sembrava qualcosa di inconsistente e, beh, scivoloso, il genere di cosa da cui era più facile cadere che rimanere sopra.

“Ok”, disse lui, agitando il capo, valutando i vestiti di lei. “E’ più difficile col vestito lungo”, disse. “Dovrai sedere con entrambe le gambe da un lato. Si arrampicò sulla moto e le mostrò come, tenendo le ginocchia vicine e pressate contro il lato della moto, torcendo il corpo per guardare in avanti. “Devi stringerti molto forte a me”. Sorrise col suo sorriso da star del cinema.

Yasmin si rese conto di che errore fosse stato il suo. Questo strano uomo. La sua moto. Andarsene a Mumbai, lontano da Dharavi, in un posto strano, per una strana ragione. E ora lui aveva il suo lathi, che non era neanche suo, così se si fosse girata e se ne fosse tornata dentro Dharavi avrebbe dovuto comunque spiegare al fratello dove era finito il lathi, e la nota scritta per sua madre. Così ora stava per finire ammazzata nel traffico di Mumbai con un perfetto sconosciuto andando alla città fantasma preferita da Bollywood.

Tutto questo era senza speranza, ma non quanto essere da sola, fuori dall’esercito, fuori dalla scuola, fuori dagli Webbly. Non quanto lo era essere la povera Yasmin, la ragazza di Dharavi, nata a Dharavi, cresciuta a Dharavi.

Si tirò su sulla moto e Ashok si sedette davanti, con la giacca di cuoio pressata sul suo fianco. Lei cercò di girare le cosce per guardare in avanti e si trovò in una posizione così precaria che per poco non cadde all’indietro.

“Devi tenerti”, disse Ashok, ed i bambini mendicanti fecero dei gesti volgari. Chiudendo gli occhi, lei mise le braccia intorno alla vita di lui, sentendo quanto era magro sotto la giacca alla moda, e unì le dita delle mani all’altezza del suo stomaco. Ora la sua posizione era meno precaria, ma continuava a sentirsi come se dovesse cadere da un momento all’altro… E non aveva nemmeno iniziato a muoversi!

Ashok diede un calcio al cavalletto della moto e accese il motore. Una nuvola di fumi di biodiesel uscì dalla marmitta, con l’odore di vecchio olio da cucina — ovviamente, probabilmente all’inizio era olio da cucina — speziato e stantio. Lo stomaco di Yasmin gorgogliò e lei arrossì sotto il suo hijab, certa che Ashok potesse sentire il rumore del suo stomaco vuoto. Ma lui si limitò a girare la testa e chiedere, “Pronta?”.

“Sì”, disse lei, ma la sua voce venne fuori con uno squittio.

Fecero a malapena cinquanta metri prima che lei gridasse “Ferma! Ferma” nei suoi orecchi. Non era mai stata così spaventata in tutta la sua vita. Si sforzò di sciogliere le dita e portò le mani tremanti al grembo.

“Cosa c’è che non va?”

“Non voglio morire!”, urlò lei. “Non voglio morire sulla tua folle moto in questo folle traffico!”

Lui annuì pensoso. “E’ il vestito,” disse. “Se solo tu potessi sedere a cavalcioni”.

Yasmin tastò le cosce infelice, poi tirò su il vestito, mostrando gli salwar — ampi pantaloni — che indossava sotto di esso. Ashok annuì. “Così andrà bene”, disse. “Ma devi legare i bordi di ogni gamba, così che non rimangano intrappolati nella ruota”. Aprì nuovamente il portabagagli e ne tirò fuori delle fascette di plastica, che lei usò per legarseli alle caviglie.

“Bene, andiamo”, disse Ashok, Yasmin salì sulla la moto, circondandolo di nuovo con le braccia. Lui odorava del suo gel per capelli, di cuoio e di sudore. Yasmin si sentiva come se fosse finita su di un altro pianeta, anche se poteva ancora vedere la stazione di Mahim dietro di se. Si strinse a lui come se ne andasse della propria vita mentre lui dava gas al motore e manovrava nel traffico.

Lei si rese conto che lui prima stava andando piano per lei, guidando con molta precauzione per riguardo alla sua posizione precaria. Ora che lei si sentiva più sicura, lui guidava come il peggior gangster che avesse mai visto in un film di azione. Andava sparato con la piccola moto sul bordo della strada, a lato del traffico lento, che si muoveva a scatti, sempre sull’orlo di finire nel puzzolente canaletto di scolo, essere ucciso da un guidatore che girasse o da una portiera che venisse aperta per sputare del betel sulla strada; o investire uno dei mendicanti che si allineavano sul bordo della strada, bussando ai finestrini e mostrando espressioni tristi ai guidatori imbottigliati nel traffico.

Yasmin aveva guidato un milione di veicoli virtuali nella sua carriera di giocatrice, ad alte velocità, su terreni accidentati. Non era neanche lontanamente la stesa cosa, persino con il casco che filtrava la realtà con la sua imbottitura e il suo visore. Poteva sentire i propri piagnucolii nella testa. Ogni nervo del suo corpo stava urlando Scendi da questo coso finché puoi! Ma la sua mente razionale insisteva sul fatto che questo ragazzo guidava la sua moto per le strade di Mumbai ogni giorno ed era comunque riuscito a sopravvivere.

Inoltre c’erano così tante cose di Mumbai da vedere, mentre passavano velocemente per la strada, e queste erano molto più interessanti che preoccuparsi della propria morte imminente. Mentre sfrecciavano su una strada rialzata, passarono accanto un enorme ponte sospeso, largo otto corsie, tutto di cemento bianco e cavi d’acciaio, che un intricato cartello in hindi e in inglese proclamava orgogliosamente essere il Bandra-Worli Sea Link. Sfrecciarono sulla rampa per salirci, viaggiando vicino alle travi che contornavano il bordo del ponte, sotto di loro, il mare blu splendeva e sembrava così vicino da poterlo quasi raggiungere con la punta delle dita, immergendole nelle onde. L’aria odorava di salmastro e di mare, i soffocanti gas del traffico spazzati via da un vento che colpiva il suo vestito ed i suoi pantaloni, incollandoli al suo corpo. La sua paura svanì mentre attraversavano il ponte e non tornò quando ne ridiscesero, nuovamente a Mumbei, nuovamente nelle strade ingorgate di traffico e di gente. Sterzarono per evitare dei saddhu, uomini consacrati dai corpi nudi coperti di pittura. Sterzarono per evitare dabbahwallah, uomini che consegnavano pranzi fatti in casa da mogli a mariti in tutta la città, con secchi di tiffin attaccati a grosse cornici di legno, bilanciati sopra le loro teste.

Seppe che erano quasi arrivati ad Andheri quando superarono il gigantesco Infinity Mall, girando poi per costeggiare un lungo, antico, muro di mattoni che correva per centinaia di metri, circondando un grosso fondo che doveva essere stato uno degli studi cinematografici. Al di fuori del muro, accanto al canale di scolo, c’era un ribollente mercato di venditori ambulanti, ristoranti all’aria aperta, mendicanti, artigiani e, in mezzo a loro, produttori cinematografici con belle giacche ed occhiali da sole, aggrappati ai loro telefonini mentre andavano per la loro strada. La moto avanzò sterzando in mezzo a tutto questo, evitando una lunga linea di costose automobili senza una sola macchia che correva lungo tutta la lunghezza del muro in una coda senza fine per passare attraverso il posto di blocco della sicurezza all’ingresso.

Yasmin vide tutto questo mentre sfrecciavano per tutta la lunghezza della parete, facendo un giro acuto alla sua fine, seguendola fino ad un ingresso più stretto. Due guardie, con dei fucili incatenati alla cintura, controllavano l’ingresso. Alzarono i fucili quando Ashok si avvicinò, ma quando fu ancora più vicino lo riconobbero e si scostarono, lasciando libera la stretta apertura nel muro, larga a malapena abbastanza per fare passare la moto, nonostante Ashok vi entrò a tutta velocità e Yasmin ansimò quando le sue vesti strusciarono contro il vecchio muro di mattoni.

Attraversare l’ingresso fu come entrare in un altro mondo. Davanti a loro, gli studios si spandevano all’infinito, l’angolo più lontano si perdeva nella nebbia causata dall’inquinamento. Strade e sentieri formavano dei labirinti sul terreno, girando attorno i più grandi edifici che Yasmin avesse mai visto, edifici enormi che sembravano stazioni del treno, o gli hangar per aerei dei film di guerra. Il terreno era tutto coperto di erba curata, frutteti ben ordinati e uomini di fatica che andavano avanti e indietro per svolgere compiti misteriosi con le loro cinture cariche di attrezzi che dondolavano alla loro vita, portando grosse quantità di tubi, legna e tessuti.

Ashok superò gli hangar (dovevano essere gli studi di registrazione dove giravano i film. C’era una buona mappa basata sugli studios cinematografici in Zombie Mecha, dove potevi combattere contro gli zombi attraverso una serie di strutture scenografiche per film) portandoli verso una serie di basse roulotte che abbracciavano il muro alla loro sinistra. Ognuna aveva una palizzata in miniatura di fronte a se, con un piccolo giardino fiorito, così ordinato e pulito che all’inizio Yasmin pensò che i fiori dovessero essere finti.

In fine Ashok fece rallentare la moto e la fermò. Il rumore del motore continuava a rimbombarle nelle orecchie e continuava a sentire il tremito della moto nelle sue gambe e nel suo fondo schiena. Yasmin sciolse la presa intorno alla vita di Ashok e scese dalla moto, inciampando nel lathi e cadendo a terra nell’erba. Arrossendo si rialzò in piedi, incerta, ma dritta.

Ashok le sorrise “Tutto a posto, sorella?”

Lei voleva dire qualcosa di furbo e pungente in risposta, ma non le venne in mente nulla. Le parole le erano state strappate via dalla corsa. Di colpo, si sentì come se fosse in grado solo a malapena di respirare, il tessuto del suo hijab sembrava riempito di polvere e questa le finiva nel naso e nella bocca ogni volta che inalava. Con cura sciolse l’hijab così da scoprire la faccia.

Ashok la guardò con orrore. “Tu… sei solo una bambina!”

Lei si adirò e le parole le tornarono. “Ho quattordici anni… Ci sono ragazze della mia età che hanno marito e figli a Dharavi! Sono un’abile combattente e un comandante. Non sono una bambina!”

Lui arrossì diventando viola e chiuse le mani all’altezza del petto in un gesto di scusa. “Perdonami”, disse. “Ma… Beh, credevo tu avessi diciotto o diciannove anni. Sei alta. Ti ho portato per tutta questa strada e sei, beh, sei una bambina! I tuoi genitori impazziranno per la preoccupazione!”

Lei gli rivolse il suo migliore sguardo duro, quello che usava con i ragazzi dell’esercito per farli comportare bene quando iniziavano a comportarsi troppo, beh, da ragazzi. “Ho lasciato loro un biglietto. E sarò di ritorno stanotte. E sono abbastanza grande da preoccuparmi di queste cose da sola, grazie tante. Ora, mi hai trascinata per mezza India per un qualche proposito misterioso, e sono certa che non sia semplicemente per parlarmi della mia vita familiare”.

Lui si riprese e sorrise di nuovo. “Scusa, scusa. Hai ragione, siamo qui per un meeting. E’ importante. Gli Webbly non hanno mai avuto molti contatti con i veri sindacati, ma ora che Nor è nei guai, mi ha chiesto di occuparmi della sua causa con i sindacati di qui. Ci sono degli incontri come questo in tutto il mondo, oggi. In Cina e in Indonesia, in Pakistan, Messico e Guatemala. La gente che ci sta aspettando là dentro… sono leader di veri sindacati, rappresentanti del sindacato dei lavoratori tessili, dei lavoratori delle acciaierie, persino il sindacato dei Lavoratori dei Transporti e Portuali… i sindacati più grossi di Mumbai. Con il loro supporto, gli Webbly avrebbero accesso a denaro, gente per le linee di picchetto, influenza e potere. Ma non sanno nulla di quello che fai… Non hanno mai giocato a niente. Pensano che internet serva per le e-mail e per la pornografia. Così tu sei qui — noi siamo qui — per spiegare loro queste cose”.

Lei deglutì un paio di volte. C’erano così tante cose in tutto questo che non capiva… e quello che capiva non la rendeva affatto felice. Per esempio, questa storia dei veri sindacati: gli Webbly erano un vero sindacato! Ma c’erano cose più pressanti che la sua irritazione, per esempio: “Cosa intendi con ‘noi siamo qui per spiegare’? Sei un giocatore?”.

Lui scosse la testa mestamente “Non ho la pazienza per farlo. Sono un economista. Un economista del lavoro. Ho passato un sacco di tempo con SN, lavorando ad una strategia con lei”.

Yasmin non era del tutto certa di cosa fosse un economista, ma sentiva che ammetterlo avrebbe minato ulteriormente la sua credibilità con questo uomo che l’aveva chiamata bambina. “Ho bisogno del mio lathi”, disse lei.

“Non hai bisogno di un lathi a questo meeting”, disse Ashok. “Nessuno ci attaccherà”

“Qualcuno lo ruberà”

“Questa non è Dharavi”, rispose lui. “Nessuno lo ruberà”.

Questo fece scattare qualcosa dentro di lei. Lei poteva parlare dei problemi di Dharavi. Lei era una ragazza di Dharavi. Ma questo estraneo non aveva nessun diritto di parlar male della sua casa. “Ho bisogno del mio lathi nel caso dovessi spaccarti il cranio per insegnarti a parlar male di casa mia”, disse lei, digrignando i denti.

“Scusa, scusa”. Si acquattò accanto alla moto e iniziò a togliere le corde elastiche che bloccavano il lathi. Anche Yasmin si inginocchiò ed iniziò a liberarsi delle fascette di plastica che le stringevano i pantaloni alle caviglie, ma queste si potevano solo chiudere, non aprire. Ashok guardò verso di lei da sopra i cavi elastici.

“Devi tagliarle”, disse. “Ecco, un secondo”. Cercò nella tasca dei pantaloni e ne tirò fuori un coltello a farfalla che aprì con uno scatto. Prese con gentilezza la banda di plastica sulla sua caviglia destra e infilò la lama fra questa e la sua gamba. Lei trattenne il fiato mentre lui tagliava la plastica, per poi passare all’altra caviglia. Lui la guardò. I loro occhi si incontrarono e lei distolse lo sguardo.

“Stai attento”, gli disse, nonostante lui avesse già finito. Lui le passo il lathi. Lei lo prese con le dita intorpidite, facendolo quasi cadere, per poi riafferrarlo con più forza.

“Ok”, disse lui. “Ok”. Scosse la testa. “La gente là dentro non sa niente di te o di cosa fai. Sono un po’, sai, all’antica”. Sorrise, come se stesse ricordando qualcosa. “Molto all’antica, in alcuni casi. E non sono molto bravi coi bambini. Coi giovani, volevo dire”. Alzò entrambe le mani mentre lei alzava il suo lathi. “Volevo solo avvertirti”. La guardò per un attimo. “Forse potresti coprirti di nuovo il volto?”

Yasmin ci pensò su per un momento. Ovviamente non voleva coprirsi la faccia. Voleva entrare semplicemente come sé stessa. Perché non poteva farlo? Ma indossare l’hijab aveva i suoi vantaggi, ed uno era che nessuno ti avrebbe chiesto perché coprivi la tua faccia. Ashok aveva chiaramente creduto che lei fosse molto più vecchia finché non se l’era sciolto.

Senza parole, portò il tessuto a coprirle il volto, legandolo. Lui alzò i pollici con approvazione e disse, “Perfetto! Sono brava gente, devi sapere. Davvero brava gente. Vogliono essere dalla nostra parte”. Ashok deglutì, pensò un altro po’, scosse leggermente la testa da lato a lato. “Ma forse non lo sanno ancora”.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :