I Torinesi meno distratti stamattina, passeggiando per il centro alla luce del tiepido Sole primaverile o affrettandosi per raggiungere il posto di lavoro, avranno notato con curiosità che la statua di piazza CLN e quella davanti a Palazzo Nuovo avevano qualcosa di diverso. Un bavaglio, per la precisione.
Se il Torinese in questione, poi, decide di mettere da parte la pigrizia e osserva più attentamente, scopre con semplicità verso cosa è rivolto questo evidente segno di protesta.
#freebelarus, recita il cartello; il cancelletto rimanda all’ormai consueto metodo di aggregazione dell’informazione di cui si serve Twitter.
E allora, compitando le lettere dello slogan sul social network, emerge che ieri notte si è tenuta in molte città europee un’iniziativa di sensibilizzazione rispetto alla situazione della Bielorussia.
A due passi dall’Unione europea, che ha nella sua tradizione storica la salvaguardia della democrazia e dei diritti fondamentali, vi è infatti la dittatura di Lukashenko, dove la repressione delle libertà è all’ordine del giorno, dove la povertà è la scenografia di un drammatico teatro di violenze e soprusi.
Marcello racconta della sua esperienza di volontario in loco come animatore di bambini nei villaggi più poveri e ancora afflitti dagli strascichi di Chernobyl.
“Anche senza documentarsi prima della partenza, appena varcato il confine si ha subito la percezione di essere in una dittatura”. Propaganda serrata: vessili coi colori nazionali, manifesti raffiguranti individui in abiti tradizionali e recanti slogan entusiastici circa i miracoli del regime.
Edifici fuori splendenti, dentro fatiscenti. A Minsk tutto è apparenza; alle elezioni il dittatore porta a casa il 90% dei voti, e non è da escludere che sia un risultato veritiero: come potrebbe infatti formarsi un’opposizione senza cultura, senza informazione, senza molteplicità mediatica?
“Gli altri partiti hanno un’ora all’anno per presentare il proprio programma”, continua Marcello. Tutto il resto è appannaggio di Lukashenko e delle sue muscolari parate militari.
La manifestazione condotta dalla Jef Europa, di cui la GFE Torino è sezione locale, è volta a far luce sul tema e auspica l’avvio di un dibattito. L’Ue non può continuare senza una politica estera comune. Bisogna avviare un processo democratico che permetta ai cittadini di esprimere un Governo europeo, legittimato e in grado di alzare la voce.
La CEDU, che l’Ue ha fatto sua, e la Carta di Nizza non possono restare lettera morta.
L’attuale Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune, Miss Ashton, non ha alcun potere efficace per intervenire: l’intera materia è oggi affare del Consiglio, ove si decide all’unanimità. I problemi sono evidenti, soprattutto alla luce del fatto che l’Ungheria siede in quell’organo e da poco ha avviato la svolta autoritaria.
La questione è cruciale; il Medio Oriente, l’Africa, i confinanti europei,l’India: chiedere che l’Ue rifletta su se stessa e si adegui al fine di essere un attore degno del panorama internazionale non vuol essere un discorso imperialista; piuttosto, è bene che il Vecchio Continente abbia una voce unica e autorevole, affinché il modello democratico e di welfare che qui è stato inventato sia considerato un riferimento dagli altri Stati. I cittadini del mondo devono poter guardare ad una compagine che non accetta la repressione.
Speak up for democracy, scrivono i ragazzi che hanno partecipato all’iniziativa.
Accettiamo la sfida?
Articolo di Lorenzo Berto.