Magazine Lavoro
Un anno fa, con il mio collega Stefano Zapperi, ho scritto un libro dal titolo “I ricercatori non crescono sugli alberi”. Il titolo vorrebbe mettere in luce il fatto che formare un ricercatore richiede un sistema, un’infrastruttura e che i ricercatori non nascono per caso e sono importanti per il Paese. Il sistema universitario e della formazione sono dunque centrali, perché i ricercatori, e la ricerca che producono, che sia di base o applicata, che sia scientifica o umanistica, fanno parte delle infrastrutture di un paese avanzato. Ne rappresentano il futuro, perché solo dalla capacità di generare innovazione può nascere e crescere la possibilità di essere competitivi. Senza innovazione il paese è destinato alla decadenza, perché anche le famose scarpe che piacciano tanto al nostro premier saranno prodotte da chi ha a disposizione una mano d’opera che costa una frazione della nostra. Oggi i ricercatori stanno sui tetti perché pensano che il DDL Gelmini sia un’assurdità.
Come ho cercato già di mettere in luce il ddl Gelmini è il frutto del suo tempo. Un tempo in cui sparare sull’università pubblica è diventato uno sport nazionale. Un tempo in cui la ricerca di base non serve a niente. Un tempo i cui i ricercatori sono una confusa folla vociante e malmessa, con i capelli scompigliati e la barba un po’ sfatta, che fa da coreografia a qualche trasmissione televisiva. Un tempo in cui i ricercatori sono tutti raccomandati, gli ordinari tutti baroni, i baroni tutti mafiosi, e tutti certamente parenti o amanti di tutti gli altri. Un tempo in cui si sparano numeri e percentuali, leggi ed emendamenti, di cui nessuno conosce più il significato ma che sono utili a rispondere alla domanda del momento. Un tempo in cui si è perso il significato reale dell’istruzione, del ruolo dell’università e dell’importanza della ricerca. Nel ddl Gelmini, come anche riconosciuto dal Senatore Valditara, che ne è stato il relatore al Senato, “Manca tuttavia l’idea di fondo e più importante: la considerazione della centralità della ricerca e dell’istruzione.” E di che stiamo parlando, allora, è sempre meno chiaro, soprattutto ora che il quadro politico è in rapido cambiamento. Una legge che prevede qualche centinaio di deleghe da definire che senso ha ora che il governo si sta incamminando in una via di inarrestabile declino? Chi definirà cosa? Quando? Come? L’università, già in una situazione critica di per sé, non ha certo il tempo di aspettare gli incerti tempi della politica. Soprattutto i giovani ricercatori non l’hanno e men che meno gli studenti che tra qualche mese troveranno aule vuote.
Le immagini di Granata, della Vedova, Perina e Moroni, tutti ora di Futuro e Libertà, sui tetti della facoltà di architettura di Roma parlano da sole. Sono saliti lassù per spiegarsi e per ascoltare: lo hanno fatto sinceramente e si sono confrontati apertamente. Se non lo avessi visto con i miei occhi difficilmente lo avrei creduto. Lo avevano fatto prima di loro Vendola, Di Pietro, Pardi, Ferrero e Bersani. Quest’ultimo subito additato come “un esempio per i violenti” da Gasparri. Queste immagini dimostrano visivamente e chiaramente, più d’ogni parola, che i finiani sono oramai dei marziani rispetto al loro ex gruppo: vivono e si comportano come abitanti di un altro pianeta. Come una controparte politica con cui si può discutere senza essere preventivamente bollati come disfattisti o “di fare il gioco dei baroni” (e ce ne vuole di fantasia!). Il quadro politico è cambiato, mettendo un pedale sull’acceleratore, e del retroterra che ha generato il ddl Gelmini sono rimaste solo parole che ogni minuto diventano più vuote ed inconsistenti. Bisogna solo che tutti se ne rendano conto con tranquillità e fermezza, guardando avanti: dietro ci sono solo macerie.
(Pubblicato su Il Fatto Quotidiano online)
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