Speciale: Speciale Garth Ennis: nessuna pietà agli eroi
- Garth Ennis: nessuna pietà agli eroi – presentazione
- Garth Ennis: nessuna pietà agli eroi – Introduzione di Davide Barzi
Io quella volta lì avevo venticinque anni
Era l’estate del 1997. L’estate irlandese.
Affrontavo il mio primo volo dopo quasi un quarto di secolo con i piedi per terra. Mi immaginavo in una storia di guerra pubblicata dalla Fleetway, su un aereo realizzato con dovizia di particolari da Ferdinando Tacconi.
La fantasia mette le ali, soprattutto di fronte alla paura. Undici anni dopo forse mi sarei rappresentato in War Is Hell, ma allora il mio immaginario non era ancora così corrotto.
Andavo verso luoghi che avevo sognato attraverso le canzoni dei Pogues, dei Waterboys e dei Clannad, o filtrate attraverso i primi due album dei Modena City Ramblers. Era l’estate di Pop degli U2, come testimoniano i baffoni alla The Edge che ho sfoggiato in quelle sole due settimane e mai più, men che meno in Italia, ho avuto l’ardire di riproporre.
Anni dopo, rivedendo quelle foto e facendo un altro parallelo musicale, avrei associato quell’audace look a tu-sai-chi, che invano tentò di imitare il suicidio di Kurt Cobain.
Insomma, il boschetto della mia fantasia era puro e incontaminato proprio come la verde Irlanda che con altri quattro amici (non fate gli spiritosi, gli altri non emulavano il resto dei Village People) stavamo girando in lungo e in largo. Musica, birra (nel mio caso sidro), natura. Fino alla tappa di Dublino.
Fino all’arrivo al negozio “Comics” di Crow Street. C’erano, in bella vista, con malcelato orgoglio dei gestori, albi discretamente disturbanti. Sfogliai venticinque numeri di Preacher, uno per ogni anno della mia vita. Avevo compagni di viaggio cattolici, evitai di mostrare loro il contenuto di quegli albi, e soprattutto mi sforzai di nascondere sotto i baffi (ridicoli ma in questo caso utili) il ghigno sardonico. E leggendo quelli l’innocenza era già perduta. C’era poi una miniserie intitolata Dicks, storia di una cricca di instabili che mi fece contemplare con uno sguardo diverso anche le persone con cui stavo trascorrendo le giornate. Me compreso, beninteso. In quell’ammasso di carta trovai anche una miniserie dal titolo Unknown Soldier. Dolorosa, profonda, sfaccettata. Incredibile a dirsi, lo sceneggiatore era lo stesso delle prime due opere. Ripartimmo per il nostro tour, toccando anche l’Irlanda del nord, passando forse, chissà, anche vicino a Holywood, località dove nel 1970 era nato quel pozzo di fantasia malata.
In quell’estate, mentre noi vagavamo alla scoperta di Galway, Limerick e Cork, il 9 agosto debuttava a livello professionistico quello che sarebbe diventato il capitano della nazionale irlandese: indossando la maglia dei Wolverhampton Wanderers e segnando una doppietta al Norwich City, Robbie Keane si presentava al mondo. Sarebbe anche passato per l’Italia, meglio per l’Inter, nel 2000, ma una società che stava ancora raccogliendo i cocci della gestione Lippi non seppe valorizzarlo. Lo sceneggiatore di Holywood (con una L sola, mentre i fan attendono sempre lo sbarco in pompa magna in quella con la doppia L), invece, in Italia avrebbe avuto decisamente maggior fortuna. Tanto che oggi, addirittura, è l’Italia a dedicargli una raccolta di saggi. Perché quel pazzo non ha disturbato solo la mia, di mente. Da allora, in maniera quasi paranoica, seguii la sua sterminata produzione (il maledetto è anche estremamente prolifico, oltre che talentuoso) e con me lo fecero decine di migliaia di persone in tutto il mondo, alcune delle quali, le più segnate da quelle storie, le trovate in questo libro a cercare di mettere ordine in quel dedalo di storie e protagonisti che il ragazzaccio in questione ha inanellato in ormai più di vent’anni di carriera. Perché mai come per le sue storie è valsa l’abusata formula “Niente sarà più come prima”. Con la differenza che di solito lo si dice dei personaggi, con lui va inteso nei confronti dei lettori.
Personalmente, devo ammettere che il restante giro d’Irlanda non fu più lo stesso, dopo aver letto le sue storie. Alla fabbrica della Guinness mi aspettavo mi aspettavo di trovare quei “due idioti da Belfast” di Dougie e Ivor, dall’alto delle Cliffs of Moher mi immaginavo cadere, rovinarmi il volto e vedermelo ricostruito con discutibili risultati da un chirurgo plastico, il viaggio di ritorno in aereo fu un incubo che nemmeno se avessi volato con a fianco l’Aquila Fantasma.
Caro il mio Garth Ennis, mi devi la vacanza spensierata che mi hai tolto nel ‘97.
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