Magazine Psicologia

Genitorialità: Imparare a dire “No”

Da Psychomer
by Arianna Motteran on giugno 29, 2012

Genitori non si nasce, perché la nostra prima condizione è quella di essere figli. Arriva un momento, però nella vita, in cui si è chiamati a passare dall’essere figlio all’essere genitore. Qualche generazione fa, questo passaggio sembrava meno difficile da affrontare o più naturale. Si imparava a proprie spese e sulla propria pelle che cosa volesse dire “crescere un bambino”. Non c’era nessuno che educasse alla “genitorialità”, ad una “cura responsabile”, esprimibile attraverso due poli: quello affettivo e quello etico (D. Bramanti, 1999).

Non c’è mai stato un manuale che insegnasse che cosa dovesse fare un genitore. Quello che si sapeva, e su cui non si transigeva, era l’educazione valoriale, morale e comportamentale; vi era però qualche problema sul versante affettivo, poiché dimostrare l’amore per la prole non era visto bene dalla società. Contrariamente, ai nostri giorni, le manifestazioni d’affetto sono l’essenza della “capacità genitoriale”, ma il polo etico sta venendo meno.

Anche solamente parlando con le giovani famiglie o guardando il rapporto tra genitori e figli, sembra che qualcosa sia sfuggito di mano. Sembra che il termine “genitorialità” stia perdendo senso e con esso, un’educazione autorevole. Intendo precisare e sottolineare che la parola “autorevolezza” non corrisponde  nè all’autorità del padre-padrone della famiglia patriarcale di un tempo, nè al permissivismo/lassismo su cui si sta imperniando oggi l’intero sistema. L’autorevolezza, indica la “capacità di far crescere l’altro”, fondandosi non sull’esercizio di potere di un soggetto o di un’istituzione, bensì “sulla forza interna della persona, per la credibilità e la stima che sa suscitare”, (A. Sammartano, 2009).

L’autorevolezza non è così facile da ottenere ed esercitare e probabilmente, anche per questo, ci si rifugia nel permissivismo. Così, l’amore per un figlio corrisponde al non dire “no”, costellando di “” la crescita di un bambino che si trasforma in una sorta di despota viziato e, di conseguenza, diventa ingestibile.

Ricordo la frase di una madre, colta in fallo da un’amica che le faceva notare quanto fosse sbagliato comprare qualcosa al proprio figlio, ogni giorno. Lei aveva risposto teneramente, dicendo: “Non riesco a dire di no alla luce dei miei occhi”. E’ la concezione che sta alla base, ad essere completamente errata, ossia: “dire di no vuol dire fare del male o far soffrire il proprio bambino”. I “no”, invece, servono a “fargli bene” perché si deve rendere conto che non può avere qualsiasi cosa dalla vita, ma che anzi, ci sono cose che non si possono possedere per motivi economici, etici o valoriali. Per di più, comincia a prendere atto che il mondo non ruota solo attorno a lui e che il potere decisionale è nelle mani dei genitori. I no non devono essere continui, ma devono essere presenti e motivati: altrimenti come affronterà una sconfitta o un “NO” proveniente da altri?

Gli stessi strumenti mediatici stanno evidenziando questa situazione. Nel palinsesto televisivo, da un lato, vediamo le follie di madri che spendono 30.000 $ per festeggiare il compleanno del bimbo di 6 anni (“Party mamas”, su “Real Time”) e dall’altro lato, una squadra di educatrici, chiamate tate, che soccorrono famiglie disastrate da bambini ingestibili (“S.o.s Tata”, su “La7”).

L’amorevolezza e la dimostrazione d’affetto nei confronti dei figli non è sufficiente nell’educazione, soprattutto se pensiamo che l’obiettivo è quello di aiutare a sviluppare una personalità che raggiunga pian piano l’autonomia. Soddisfare ogni genere di richiesta, permettere ogni tipo di esperienza, assecondare e proteggere da quelle minacce esterne che abbiamo affrontato tutti nella vita, non aiuta a diventare autonomi, contrariamente a quello che si può pensare. Ambienti non adatti all’età (discoteche, stadi, luoghi dove si inneggia la violenza,…), moderne tecnologie (i-phone, tablet, nintendo, play station…), esperienze non filtrate (discussioni pesanti, film per adulti, ecc) possono far crescere più in fretta, ma il fatto di aver anticipato e bruciato le tappe evolutive non giova certamente ai fini dell’educazione, dell’impianto di valori della persona e dell’identità stessa.

Purtroppo, questo precoce contatto con qualsiasi esperienza, oggetto e ambiente, rischia di creare adulti in miniatura. Si corre il pericolo di perdere l’infanzia, quel periodo spensierato ed ingenuo della propria vita in cui si è fatti di creatività, si crede alle favole e si aspetta la fata del dentino. Questo mi fa pensare all’arte medievale in cui gli infanti venivano rappresentati, come “uomini veri e propri, senza nulla di infantile, semplicemente in formato ridotto” (P. Ariès, 1975). Questo accadeva allora perché mancava il rispetto e l’amore per la prima età della vita e questo accade ora se l’infanzia viene negata da genitori che crescono adulti, invece che bambini.

 


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :