Per il dominio sulla produzione di droghe si sono combattute guerre e si sorreggono tuttora interi sistemi politici in diverse parti del mondo
Il sistema moderno, basato sul paradigma capitalista e sulla forma liberaldemocratica, ha fra i suoi punti-chiave il controllo delle principali fonti e risorse economiche.
Non è un mistero che gran parte dei conflitti moderni dietro motivazioni di tipo umanitario nascondano in realtà necessità di ben altra natura, come il controllo delle materie prime di cui è dotato il Paese in questione.
Come materie prime si intendono tutte quelle risorse di base necessarie per la produzione di beni secondi: materie tessili, prodotti agricoli e animali, legname, minerali. In particolare nell’attuale panorama economico assumono un ruolo di primaria importanza le fonti energetiche: in generale l’opinione pubblica ha ben presente che le guerre in Iraq e in Libia hanno come posta in gioco le risorse di petrolio e gas naturale a disposizione dei governi di Baghdad e Tripoli. Il regime libico si è attestato come quarto esportatore di petrolio nel continente africano, in gran parte verso l’Italia, l’Iraq possiede una stima dell’11% dell’oro nero a livello globale. I cambiamenti originatisi in questi anni all’interno del sistema, con l’indebolimento della superpotenza statunitense e l’affermazione della Cina come “competitor” turbocapitalista, costantemente affamato di energia per sostenere la propria crescita, ha rimesso in discussione equilibri che in questo ambito si davano ormai per assodati da decenni, con una lotta fra poteri forti come mai si era vista prima.
Su questo, come detto, si è scritto molto e l’opinione pubblica ha già le idee chiare, spesso anche troppo semplificate (l’aggressione all’Iraq e la destituzione di Saddam Hussein fu anche il frutto di una serie di baratti geopolitici tra Usa e Israele per cercare di normalizzare definitivamente la regione, il petrolio c’entra ma non spiega tutto).
Un aspetto che però si tende spesso a non considerare è che l’economia globale si regge anche su leve “non ufficiali”, anzi, a tutti gli effetti illecite, ma il cui controllo garantisce comunque una posizione dominante alla potenza che lo acquisisce.
Il riferimento principale è in questo caso il narcotraffico. Si stima che la droga sia uno dei principali motori alla base dell’economia mondiale. Sulla produzione ed esportazione delle sostanze stupefacenti si sono combattute guerre e si sorreggono tuttora interi sistemi politici in diverse parti del mondo. Del resto è sufficiente risalire a nemmeno due secoli fa per osservare i primi conflitti armati scoppiati sulla base di questa motivazione: le due Guerre dell’Oppio (1839-1842; 1856-1860) combattute fra Gran Bretagna e Cina. La ragione? Già allora una delle risorse principali dell’economia di Londra era il commercio dell’oppio, che vedeva nel Celeste Impero uno dei suoi mercati di riferimento. Il tutto naturalmente con pesanti ripercussioni interne sulla società cinese per l’incidenza della tossicodipendenza. Entrambe le guerre videro la sconfitta della Cina e di ogni suo tentativo di frenare la penetrazione dell’oppio britannico entro i propri confini, oltretutto a tariffe doganali bassissime.
Da allora è cambiato molto meno di quanto si potrebbe credere: il narcotraffico è sempre una leva fondamentale per gli equilibri finanziari, anzi, ben più di allora, essendo un mercato in continua espansione che difficilmente conosce crisi. La sola differenza da allora è che oggi non lo si ammette. I protagonisti principali di questo gioco sono da individuare sia tra gli Stati nazionali sia tra altri attori geopolitici i cui rapporti con le entità statuali possono essere di conflittualità o di connivenza, o anche entrambe nello stesso momento: le mafie.
È interessante notare come la mappa dei conflitti su scala mondiale ricalchi quella del possesso delle fonti energetiche e delle sostanze stupefacenti.
In particolare questo processo ha subito un’accelerazione decisa sin dalla fine degli anni ’90, con l’intervento nella ex-Jugoslavia.
Per prima cosa, occorre distinguere fra i Paesi in cui le sostanze vengono prodotte e i cosiddetti “corridoi della droga”, ossia quegli Stati attraverso i quali la merce transita per arrivare alle destinazioni finali, come ad esempio l’Europa occidentale o gli Usa.
L’eroina afgana
La produzione di oppio (da cui a sua volta si ricava una serie di stupefacenti, fra cui l’eroina) è concentrata soprattutto in Asia, lungo la fascia che taglia verticalmente il continente dalla parte centrale sino al Sud-Est. Il primo produttore, secondo le stime ufficiali delle agenzie per la lotta al narcotraffico, risulta essere l’Afghanistan, al centro della cosiddetta “Mezzaluna d’oro” (che include anche India, Pakistan, India e Nepal), contrapposta al “Triangolo d’oro” (Myanmar, Laos, Thailandia e Vietnam), storico epicentro del traffico di droga ma recentemente sorpassato dal subcontinente indiano. Proprio l’Afghanistan, quindi, Paese in via di democratizzazione forzata a suon di bombardamenti Usa e occupazione militare Nato da quasi dieci anni. Come confermato da diverse fonti, il crollo del regime talebano seguito all’invasione angloamericana del 2001 ha portato a una netta inversione nella politica tenuta da Kabul sulle colture di oppio (il quale costituisce da sempre una risorsa centrale per l’agricoltura locale). I dati forniti a tal proposito dall’“Afghanistan Opium Survey” facente capo alle Nazioni Unite sono illuminanti. Tenendo conto che oltre il 90% dell’oppio presente sul mercato mondiale proviene dal Paese delle Montagne, la discrepanza fra la produzione del 2001 (ultimo anno del governo del mullah Omar) e le annate recenti ha del clamoroso. Si passa da 74 tonnellate (frutto di una forte campagna di repressione e di alcuni decreti religiosi emessi dagli Studenti del Corano) alle oltre 8000 odierne, concentrate non solo nelle zone amministrate dagli insorti (in cui i proventi vengono reinvestiti in armi), ma anche in quelle sotto controllo governativo. Di più: sotto il controllo di parenti stretti dello stesso presidente Hamid Karzai, come il fratello Ahmed Wali Karzai, più volte accusato di essere il signore della droga nella zona di Kandahar. Al centro delle coltivazioni si è rivelata essere negli ultimi anni la violentissima provincia meridionale di Helmand, il cui controllo è ferocemente conteso tra le fazioni in guerra.
La massiccia immissione sui mercati mondiali dell’oppio afgano ha portato, dopo anni di decremento, a un improvviso e inaspettato ritorno dell’eroina, droga che si credeva ormai superata. Come se non bastasse, l’Afghanistan sta “diversificando” la sua produzione, diventando (e questa è una novità assoluta) uno dei maggiori produttori al mondo anche per quanto concerne marijuana e cannabinoidi in genere.
Le rotte dell’oppio e il narco-Stato kosovaro
L’oppio prodotto nelle coltivazioni afgane può intraprendere due grandi rotte: una verso Sud, l’altra verso Nord. Entrambe naturalmente in direzione occidentale.
I due passaggi di transito sono quindi da una parte l’Iran, che apre le porte alla Turchia e da qui ai Balcani. Da anni gli iraniani stanno combattendo, lasciati soli dal resto della comunità internazionale, una durissima guerra con i contrabbandieri che è costata la vita a centinaia di membri delle forze di sicurezza della Repubblica Islamica. Perno di questi traffici è la turbolenta provincia del Sistan-Belucistan, in cui convergono le colture provenienti non solo dai papaveri afgani, ma anche dal Pakistan, e in cui le bande malavitose godono di connivenze e appoggi con i locali separatisti sunniti (il cui gruppo di riferimento è Jundallah).
Al Nord il percorso segue invece quello delle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale. Risalendo le strade polverose dell’Afghanistan occidentale, in particolare della province di Farah e Badghis (dove fra l’altro sono stazionate le truppe italiane, spesso attaccate proprio dai contrabbandieri), l’oppio (spesso già lavorato in Afghanistan, e quindi pronto per essere messo sul mercato senza bisogno di passare attraverso nuove lavorazioni) viene fatto passare attraverso il Turkmenistan e successivamente in Kazakistan, spesso con la connivenza delle forze di sicurezza locali, fra le più corrotte al mondo, e dei maggiorenti.
Da qui si arriva già a un primo mercato di rilievo: la Russia. Va detto infatti che, pur essendo entrambi punti di transito, tanto la Russia quanto l’Iran hanno comunque avuto colpi pesantissimi dall’esplosione dell’eroina afgana in termini di tossicodipendenza. I numeri parlano chiaro: Teheran stima in più di 1 milione i propri cittadini tossicodipendenti. Le agenzie Onu elevano il dato addirittura fino ad oltre 3 milioni. Un vero e proprio flagello sociale, simbolicamente rappresentato dal Black Crack, la droga dei poveri. Lo stesso in Russia, cui è destinato oltre il 20% dell’eroina afgana, a causa del quale muoiono ogni anno circa quarantamila persone. Questo è il motivo principale delle critiche politiche che Mosca rivolge periodicamente alla Nato in Afghanistan, e per cui la Federazione Russa cerca di mobilitare l’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione (organismo che unisce Russia, Cina e diversi Paesi dell’Asia Centrale) in funzione anti-droga.
C’è però un altro dettaglio che merita di essere analizzato: lo snodo principale dell’eroina afgana nei Balcani è un altro territorio sotto tutela occidentale, esattamente come l’Afghanistan: il Kosovo. Il tutto nasce dalla sconsiderata decisione di creare uno Stato-mafia in Europa, retto da una cricca di terroristi e malavitosi come sono a tutti gli effetti gli uomini dell’Uck che ora indossano il doppiopetto nei palazzi del potere di Pristina. L’eroina è il primo business in ordine di importanza per questa terra di nessuno, assieme ad altri traffici di ogni tipo. Secondo fonti indipendenti, dietro al narcotraffico nel Kosovo ci sarebbe nientemeno che l’ex-premier benedetto dall’Occidente, Ramush Haradinaj, il quale ha continuati negli anni a coltivare i canali di autofinanziamento illecito che servivano inizialmente a finanziare la lotta armata contro il governo centrale serbo.
La cocaina e l’America Latina
L’altro settore di punta del narcotraffico mondiale è rappresentato ovviamente dalla cocaina. Questo mercato si sviluppa soprattutto in un altro quadrante geopolitico, ovvero l’America Latina.
Non bisogna scordare che almeno fino all’inizio del terzo millennio tutto il subcontinente americano rientrava nella sfera diretta di influenza politica, economica e militare degli Stati Uniti, con la teoria del “cortile di casa” sin dai tempi della dottrina Monore. Naturale, quindi, che le principali risorse di queste terre fossero sottoposte a tutela statunitense; anche qui le risorse energetiche (il petrolio del Caribe, per esempio), quelle agricole (l’industria bananiera) e la cocaina. La coltivazione della coca è da sempre parte della storia di diversi di questi Paesi e ha sempre avuto un ruolo tradizionale nella vita delle popolazioni indigene di Bolivia, Perù, Venezuela e Colombia, che hanno sempre visto nelle foglie di coca un aiuto farmacologico naturale. La lavorazione del prodotto-cocaina verso Stati Uniti ed Europa ha finito per danneggiare in primis queste popolazioni, che improvvisamente hanno visto criminalizzare una delle poche risorse agricole su cui potevano contare in misura stabile. In questo senso vanno lette anche molte delle battaglie condotte dai presidenti di Bolivia e Venezuela (Evo Morales e Hugo Chavez) in favore della coltivazione della coca come attività non necessariamente volta al narcotraffico.
Anche in questo caso, però, non tutto è come sembra: il principale produttore ed esportatore dello stupefacente è, guarda caso, anche l’alleato di ferro degli Usa nella regione (tanto da ospitarne pure basi militari sul proprio territorio), ossia la Colombia. Il confine tra repressione e controllo del traffico è come in Afghanistan molto sottile e ambiguo. Ufficialmente la Colombia riceve aiuti economici e militari da Washington per la lotta al narcotraffico: il noto Plan Colombia, in vigore da fine anni ’90. In realtà quello che maggiormente interessa agli Stati Uniti è il controllo politico del Paese e della regione, con la repressione militare dei movimenti rivoluzionari di estrema sinistra attivi da decenni, le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e l’Eln (Esercito de Liberacion Nacional). Una delle pratiche più discusse condotte congiuntamente da Washington e Bogotà è l’irrorazione di glifosato sulle coltivazioni di coca. Casualmente queste avvengono in massima parte nelle aree fuori dal controllo governativo e amministrate dai ribelli. Per tutti gli anni ’80 e ’90 il vero potere in Colombia fu detenuto di fatto dai cartelli di Calì e Medellin, quest’ultimo capeggiato da Pablo Escobar. Se è vero che Escobar venne fisicamente eliminato il 2 dicembre 1993 in un’operazione congiunta di Delta Force e Navy Seals Usa in cooperazione con il Search Bloc colombiano (unità appositamente creata per dargli la caccia), è altrettanto vero che l’ascesa del boss presenta dei punti oscuri nei rapporti con gli Usa. Negli anni gli statunitensi hanno dato il sospetto di colpire le coltivazioni di coca gestite da chi non andava bene loro politicamente, chiudendo un occhio (o forse due) su quelle dei propri alleati del momento. Non si spiegherebbe altrimenti l’ascesa negli anni ’90 di Salvatore Mancuso e dei paramiliari delle Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), capaci di diventare uno Stato nello Stato con coperture politiche e giudiziarie senza trovare alcun ostacolo per il solo merito di svolgere un ruolo di contenimento della guerriglia di estrema sinistra. Nella pratica, quella di usare personaggi del narcotraffico per garantirsi il controllo politico di certe aree e poi scaricarli una volta che siano diventati troppo ingombranti è una tattica che gli Usa hanno utilizzato più di una volta. Un altro esempio in questo senso è rappresentato dal dittatore di Panama, Manuel Noriega. Personaggio che ha iniziato la propria carriera da militare, addestrato per operazioni di contro-insorgenza presso la famigerata School of the Americas di Fort Benning in Georgia, Noriega fu secondo diverse fonti il principale punto di riferimento della Cia in America Centrale durante tutti gli anni ’70 e buona parte degli ’80. Organizzò per conto di Washington i rifornimenti, l’assistenza e l’addestramento dei Contras in Nicaragua e delle milizie di Roberto D’Aubuisson in El Salvador. Una volta esauritosi il “pericolo rosso”, Noriega era rimasto sempre più potente nel suo feudo panamense, sfruttando lo strategico canale per i suoi interessi e minacciando più volte la sua chiusura agli Usa. Le mosse di Washington per esautorare l’(ex) uomo di fiducia furono per prima cosa l’incriminazione della Dea per narcotraffico (5 febbraio 1988), poi l’organizzazione dell’opposizione interna (già allora i primi tentativi di “rivoluzioni colorate”…) con l’aiuto dell’ambasciata statunitense, e, in seguito ai fallimenti di tutte queste manovre (Noriega era riuscito a farsi rieleggere umiliando il candidato sostenuto dagli Usa), il ricorso all’invasione militare, con la cosiddetta “Operazione Giusta Causa” (20 dicembre 1989). Noriega, inizialmente rifugiatosi presso la Nunziatura Apostolica, si arrese alle truppe statunitensi il 3 gennaio 1990. Estradato negli Stati Uniti, venne processato nel 1992 con le accuse principali di narcotraffico e riciclaggio di denaro sporco, venendo condannato a una pena complessiva di 40 anni di reclusione, poi ridotti a 30. Peccato però che durante tutto il processo furono in tanti tra coloro che avevano collaborato con lui durante gli anni ’70 (operativi di Cia, Dea, ma anche del Mossad israeliano) ad ammettere candidamente che Washington era a conoscenza del ruolo del dittatore panamense nel traffico di droga almeno sin dal 1972, quando però era ancora un “good guy” utile alla Casa Bianca.
Le droghe sintetiche e la criminalità israeliana
Per concludere questo quadro generale, un accenno va fatto a un altro mercato in rapida espansione. Quello delle “pasticche”, delle droghe sintetiche, la più nota delle quali è l’ecstasy. Un prodotto esploso a partire da metà anni ’90, la cui produzione non dipende da alcun fattore climatico come avviene invece nei casi succitati. I gruppi criminali israeliani, una realtà di cui si parla e si sa molto poco ma le cui attività sono parecchio ramificate, sono stati indicati in diversi rapporti stilati dall’Unione Europea e dal Dipartimento di Stato Usa come i principali attori in questo traffico. Emblematica la vicenda del cittadino con doppio passaporto israeliano-statunitense Hai Waknine, condannato da un giudice federale di Los Angeles a dieci anni di reclusione nel 2006. Waknine, assieme al complice Jacob “Cookie” Orgad era il punto di riferimento per lo spaccio in California. I due erano i referenti negli Usa del grande boss dell’ecstasy Itzhak Albergil, poi arrestato insieme al fratello Meir dalla polizia israeliana. Secondo le ricostruzioni degli organi inquirenti, la mafia israeliana utilizza laboratori in Europa (soprattutto in Olanda, ma anche in Belgio e Polonia), per poi distribuire la merce su tutti i mercati occidentali. Addirittura l’80% dell’ecstasy consumato negli Usa ha questa filiera di produzione. Il monopolio israeliano su questa droga presenta grosse sorprese: diverse inchieste hanno rivelato come i corrieri spesso siano anche ebrei praticanti ultra-ortodossi, i quali sicuramente non destano grossi sospetti negli scali internazionali. Fra gli insospettabili colti con le mani nel sacco si trova anche Goneen Segev, già ministro dell’Energia di Israele, beccato all’aeroporto di Amsterdam con 25000 pillole in valigia. Fra l’altro è anche segnalato il reclutamento da parte dei gruppi criminali israeliani di passati appartenenti alle agenzie di sicurezza, ottimi da ingaggiare per la loro esperienza sul campo.
E se in Nord Africa…
Questo è un affresco generale (per ovvi motivi di spazio) ma sostanzialmente completo delle coperture politiche e degli intrecci geopolitici inconfessabili del traffico di droga mondiale.
Per ultimo, fa pensare una domanda posta a voce alta dal Direttore dell’Agenzia russa per il controllo sugli stupefacenti, Viktor Ivanov: siamo sicuri che la recente instabilità del Maghreb non abbia nulla a che vedere col ruolo in continua crescita dei cartelli della droga in questi Paesi (in particolare in Tunisia)?