GILA(Indelebile ricordo di una foto mai esistita)
Per molto tempo, dopo l’estate dei miei diciannove anni, avrei sofferto a causa della foto non venuta con Gila (da pronunciare Ghila) che mi abbracciava sotto il sole di mezzogiorno, la divina Gila che un attimo prima dello scatto mi sorprendeva abbandonandosi, affettuosa come una gattina, col viso sul mio petto. Non che la foto fosse riuscita male: s’era proprio bruciata la coda del rullino (era l’ultimo scatto rimasto, conservato per l’ultimo giorno di Gila). Odiai profondamente, per questo, l’amico e rivale che l’aveva scattata, e me stesso per averla affidata proprio a lui. L’aveva fatta usando la posa B, l’apertura manuale illimitata del diaframma che si usava per le foto notturne, e il mio più bel ricordo era diventato un rimpianto inghiottito nel nulla, oscurato dalla luce. Per mesi sospettai che l’avesse fatto apposta. Poi mi venne il dubbio di aver fotografato la luna (la stupida, insulsa, stronza luna) qualche notte prima, e di aver dimenticato io la mia Fujica sulla maledetta posa B. Di certo lui per l’inconveniente non si dispiaque granché. Mi pare ancora di vedere il suo ghigno.
A volte incontriamo, sfioriamo, persone così perfette, così aderenti alle immagini dei nostri sogni, che sembra ce le abbiano mandate gli Dèi come premio, o come beffa. Lei era davvero angelica: bellissima, dolce, simpatica. Quando sorrideva, il cielo s’ingelosiva. Ma era sfrontata e provocante il giusto: se non si fosse voltata a fissarmi, la prima volta che ci incrociammo su lati opposti di Viale Lazio, non mi sarebbe mai venuto il coraggio – lei era davvero uno schianto. E perfetto, alle mie orecchie, era il suo nome così nuovo e così raro: Gila. Perfetto il nome del suo paese germanico, Weinstadt, che in Italiano significava “Città del Vino”. Perfetto persino il suo indirizzo, che nella mia lingua suonava vagamente come “Via dell’Estate”.
L’estate del 1986 potrebbe esser portata a esempio di quello che è sempre stato il mio atteggiamento nei confronti dello studio, e nei confronti del Mare. L’anno della cosiddetta Maturità. Ma io con la testa ci stetti solo per gli scritti. Un tema sulla lettura che naturalmente strabiliò la kommissione (ero già il piccolo Zio Scriba). Un bastardo compito di matematica a malapena da 7, anche grazie a un viscido pezzetto di merda di un’altra sezione che mi soffiò la sedia di sotto il culo dopo che avevo già appoggiato le mie cose sopra un banco in posizione abbastanza periferica per consultare in pace bigliettini e formule, obbligandomi a ripiegare su una postazio-ne attaccata alla cattedra dov’era annidata la multigestapo ministeriale. Ma poi, in vista degli orali, non più di qualche mezz’ora a studicchiare sdraiato sul terrazzo, fra una partita dei mondiali di calcio in Messico e l’altra, sognando già la pineta e la spiaggia. Ognuno dei miei compagni, al momento del sorteggio della lettera per stabilire l’ordine d’interrogazione, pregava e smaniava di poter essere l’ultimo, nel bel mezzo del luglio infuocato. Fessi. Io speravo di sbrigarmela il prima possibile, con quella burocratica tortura cretina, e poi andarmene al Mare. E così fu. Sorteggiarono la nostra sezione (la C) e la M di Mare. Così la mia P mi permise di essere l’ultimo della seconda mattina.
Le arpie della kommissione si rivelarono così sadiche e lente, nel torchiare le ragazze prima di me, che passò, e di molto, l’ora di pranzo. La Kapa Kommissionen venne da me, con finto fare materno, per chiedermi se non preferivo andare a casa a mangiare, e ritornare dopo. Dissi di no. Non vedevo l’ora di farla finita (ma questo non lo dissi). Quando finalmente toccò a me, ero in crisi. Il calo di zuccheri e la voglia di lasciarmi alle spalle quella pagliacciata idiota furono tali che mi scordai persino di proporre il lavoro facoltativo (argomento psicologia) che mi ero preparato con tanta passione: avevo dimenticato libri e appunti nella zona d’attesa, e me ne resi conto solo nell’andarmene via!
Il giorno dopo ero in autostrada al volante della nostra vecchia Carolina, insieme a mamma e fratello (papà non aveva ancora le ferie, e ci avrebbe raggiunti in pullman col servizio Varese-Mare). Era la prima volta che guidavo io. Per l’emozione, bucai lo svincolo all’altezza di Bologna e mi ritrovai in direzione Firenze. Invertii la rotta a Sasso Marconi. Fregava niente, a me, né del punteggio d’esame né della cena finale coi nostri scalcinati “insegnanti”. Il Mare mi chiamava. Il resto poteva andare affanculo. Per la cronaca, una strage: l’anno prima erano volati i 60 per cocker e cinghiali – e ovviamente tutti promossi, come sempre avveniva quasi ovunque. La kommissione di arpie invece lasciò il segno (e quanto al nostro “membro interno”, mai come quella volta l’espressione sarebbe stata da intendersi nel suo secondo e più scurrile significato). Un paio di bocciati per sezione, il mio misero 44 terzo voto di tutto il liceo, e secchie che per cinque anni ave-vano vissuto in clausura, a crackers e topexan, solo e unicamente in funzione del 60, sull’orlo del suicidio per aver beccato dei 37 e dei 38… Proprio noi, che eravamo stati una classe modello, il gioiello di quella scuola!
E poi il Mare. E poi la libertà e la sinfonia della risacca. E poi tanto divertirmi come un pazzo con gli amici, vecchi e nuovi, e le sere a pedalare, a gustare pizze, a vedere film, a giocare al minigolf, a sbevazzare da Giorgio, a fantasticare sotto le stelle. E poi Gila. Gila, che mi sorpresi ad approcciare al suo ombrellone in Inglese, io che mi credevo timido, io che soprattutto avevo sempre studiato Francese. Gila che pareva non aspettare altro quando la invitai a bere una birra con me al bar dell’Oasi. Mascalzone e scorretto, fui, perché con l’amico-rivale s’era stabilito di provarci in tandem, per farci coraggio. Ma ancor più mascalzone si rivelò lui: la birra a tu per tu con Gila – meraviglioso idillio da coppietta – durò una quindicina di secondi. Poi ci piovve addosso lui, come una pioggia acida, e divenne una deprimente bevuta in tre: aveva corrotto un bambinetto stronzo perché facesse la spia, e corresse ad avvertirlo se mi avesse visto da solo con la tedesca.
Non eravamo tanto svegli: con lei in quei giorni parlammo e basta, anche perché Gila – che era coi genitori e un’amica – si trattenne ancora per meno di una settimana. Scoprimmo che era parecchio più piccola di noi, anche se dimostrava vent’anni, ma questo non era un problema per cazzoni più intraprendenti, che arrivavano a frotte come mosche attirate dal miele, o da altra roba. Tre tedescotti del campeggio, incazzatissimi perché lei li aveva respinti, perché preferiva i fascinosi e gentili italiani (uno di loro lo chiamammo Topogigen, e poi facendo i bagni cantavamo tra i flutti canzoncine per l’appunto gentili del tipo “E Topogigen figlio di puttana, dando via il culo hai fatto tanta grana…”).
E tre sfacciatissimi veneti, cafoni oltre ogni sopportabile limite, calati da chissà quale altro stabilimento balneare: dicevano di essere dell’NCF (Nucleo Controllo Figa) e le rivolgevano sconcezze chiedendo a me di tradurle in Inglese. A loro volta, le ragazze italiane erano gelose di lei, e parlando con me la ridimensionavano chiamandola “svizzera”, pur sapendo benissimo che era tedesca.
Poi, la sciagura della foto. Nella prima delle tante lettere che le scrissi in seguito, me ne rammaricavo. Nella prima delle tante che mi spedì lei (in una busta rosa piena di cuoricini azzurri, che conservo ancora) volle porre rimedio, e per consolarmi me ne regalò alcune che le avevano scattato i suoi. Ma il ricordo più caro e indelebile resterà per sempre la foto mai vista, e materialmente mai esistita. Perché lì, e soltanto lì, io e lei eravamo insieme, sorridenti di radiosi sorrisi, l’uno stretto all’altra, come innamorati. Dentro un’estate, come tutte le cose davvero belle, irripetibile.
Gila, estate 1986
lo Zio Nick in quegli anni