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In questo articolo, oggi, userò un format un pò diverso. Non ci sarà una foto in apertura, non ci sarà un elenco di ingredienti. Appartentemente. Perché spero, se arriverete alla fine di queste righe, che il "solito format" possiate dedurlo voi, e che sappiate trovare la lista degli ingredienti che io auguro a me stessa di utilizzare in ogni giorno della mia vita.
C'è una storia che mi fa sempre male al cuore, e che è capace di farmi piangere in qualunque momento, su due piedi. Una storia che conosco bene, ma mai abbastanza.
E' la storia della crudeltà, della cattiveria più grande dell'uomo verso i suoi simili, è la storia dell'Olocausto.
Il male che provo quando penso a questa storia, o ne sento parlare, non è un sentimento di pietà che cerca di non pensare, di non ricordare, di dimenticare: è una ferita forte al petto, e allo stomaco, che mi rende consapevole di quanto difficile sarà spiegare a mia figlia che cresciamo e viviamo in un modo in cui il passato comprende tante infamità, tra cui questa.
Forse parte di questo dipende dal fatto che una parte di questi ricordi per me non appartiene ai libri di storia ma ai racconti di mio nonno, uno dei fortunati che dai campi di prigionia è tornato per poter raccontare come sembravano buone le bucce di patate quando non c'era altro da mangiare, e come grazie a quelle bucce si poteva, talvolta, sopravvivere.
Forse il mio amore per la Cucina, per i sentimenti che rivivono intorno al cibo, ha radici nella povertà dei miei nonni, che mi hanno insegnato quanto è bello mangiare insieme quando si ha esperienza della fame e della solitudine.
Io credo che la Vita sia un Luogo in cui le cose brutte superano in numero quelle belle, quelle per cui valga davvero la pena vivere. Però penso anche che La Speranza, per rendere possibile La Vita, ha seminato germogli di meraviglia tra queste crudeltà, e ci ha permesso di trovare un modo per andare avanti.
Senza quelle crudeltà, senza quei giorni bui, non ci sarebbe stato il futuro, ad esempio, di mio nonno, e non ci sarebbe stato il presente senza il passato, e non ci sarei stata io, né l'oggi, né mia figlia.
A volte c'è uno strano senso di mistero nel procedere dei giorni.
Non so cosa posso fare per rendere questo mondo migliore. Non so esattamente quali parole userò per raccontare a mia figlia quali siano i motivi per i quali vale la pena vivere. So che certe cose passano attraverso i gesti, più che attraverso le parole.
So, con tutte le mie forze, che voglio fare di tutto per non dimenticare: dalle piccole cose familiari, di cui sono sempre stata un'accanita collezionista (in ogni famiglia, sapete, c'è un membro "designato" a costituire la "memoria storica familiare": provate a pensarci e vedrete che anche nella vostra c'è una zia, una cugina, una nonna, che conosce tutto di tutti, quella persona da cui andreste per sapere qualcosa sulla vostra storia), a quelle del Luogo in cui vivo.
Per questo oggi scrivo qui. Scrivo di Memoria e di Cucina.
La cucina, quel luogo del cuore che nutre il corpo e l'anima, e attorno al quale va avanti un pò tutto, anche quando non ci si pensa.
Mi sono chiesta cosa avrei potuto scrivere, oggi, per dare il mio contributo al Giorno della Memoria della Shoah.
E allora ho pensato ad una cosa che tanto e tanto tempo fa ho sentito in televisione, in una di quelle trasmissioni che ti ricorda il peggio che sa essere l'Uomo quando vuole, e che mi ha strappato un pezzo di cuore, ma nello stesso tempo mi ha insegnato una piccola cosa in più su quanto grande può essere la forza della speranza.
Non perdere la speranza. La storia di due sorelle in Lager è un libro che parla di cucina e di vita. E' la storia della "deportazione a Ravensbrück, redatto negli anni 70 ma sulla base di appunti precedenti: un sorprendente libricino di 150 pagine: preziosi fogli sui quali di sera Maria Camilla annotava con precisione le ricette raccontate dalle altre prigioniere. Si tratta di un documento unico nel suo genere: parlare di ricette era un po’ come sentirsi di nuovo a casa e in questo modo di rivivere il passato, mantenendolo in vita, c’era un filo di speranza per il futuro. Dunque anche uno strumento di resistenza e di trasgressione: non un passatempo qualunque, ma un’inconsapevole quanto spontanea difesa psicologica che le donne utilizzavano per sopravvivere e per preservare, dalla tremenda quotidianità che erano costrette a vivere, frammenti importanti d’identità e di femminilità."
Se c'è un'insegnamento che dobbiamo portarci dalle persone che hanno saputo restare nei campi di concentramento con la speranza e la voglia di restare aggrappati alla vita, anche là dove la speranza era impossibile, è quello di avere la voglia di restare attaccati a quel poco, ma forte, c'è di bello in questo mondo: il cuore che batte, il sorriso di un bambino, il dono della vita.