Anna Lombroso per il Simplicissimus
Magari anche a voi è capitato subito prima o dopo la caduta del muro, di andare in un paese dell’Est e veder allestire agli angoli delle strade mercatini estemporanei: una donna imbacuccata davanti a una cassetta di frutta rovesciata e esposte vestigia di un antico benessere e tesori domestici, centrini di pizzo, una catenina, qualche cucchiaino da the, le coppette d’argento e vetro dove – raccontavano – un giorno lontano veniva servito il caviale luccicante e deliziosamente viscido e gelato.
E qui, oggi, l’algido ministro Grilli apre il seggiolino pieghevole e appoggia sulla cassetta rovesciata i nostri gioielli di famiglia, immobili tra 3 e 5 mld “su cui lavorare subito”, ha detto intendendo per lavoro contrattazioni più o meno opache con rutilanti sceicchi, famigli di Putin o di altre “famiglie” più o meno criminali, che si sa con le grandi ricchezze non si va tanto per il sottile.
A questi ministri si addice la smemoratezza, proiettati come sono in un futurismo avido senza ieri e senza oggi. Così Grilli certamente non vuol trarre lezioni dalla storia. Così non sa che l’autobiografia nazionale è sempre stata segnata da un pesante debito pubblico, addirittura è nata già gravata da un formidabile deficit quello – più nobile, magari – contratto per le guerre d’indipendenza. Anche allora menti illuminate suggerirono alla monarchia di cercare un’alternativa alla liquidazione improvvida dei demani ereditati dai vari Stati regionali, giustamente definito “Tesoro della Nazione… un tesoro produttivo indefinitamente e da conservare anche per le future generazioni”.
E anche allora non vennero ascoltate, così nel 1872 il Ministro delle Finanze Quintino Sella dovette ammettere che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. E per rifarsi a esperienza più recenti, dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, ne sono arrivati alle casse dello Stato solo 2.
E’ che liquidazioni, anche quelle taroccate, sono un’autodenuncia di inadeguatezza a stare nel mercato, a affrontare le leggi della concorrenza, anche a far di conto rispetto ad altri competitori più attrezzati e capaci. E questo governo ogni giorno mette in scena la sua incompetenza, capace com’è di muoversi solo nel contesto dei suoi affarucci personali, e l’approssimazione della sua preparazione specialistica. Forse Grilli era rimasto a casa col mal di gola quando hanno spiegato in classe che le svendite dei beni comuni sono poco remunerative e hanno accertate controindicazioni: producono un generale rafforzamento dell’indole redditiera dei privati e deprimono l’audacia imprenditoriale e l’attitudine al rischio, perché chi si priva di un capitale per l’acquisto, è raramente poi incline a aggiungere risorse per ulteriori investimenti produttivi.
Non occorre essere boiardi delle banche o rettori alla Bocconi, per concludere che si tratta di operazioni che favoriscono solo l’accumulazione di capitali finanziari mentre sottraggono forza e determinazione all’iniziativa imprenditoriale.
Ma i ministri equipaggiati delle menzogne della loro teocrazia mercantile, pensano che gli italiani siano ignoranti come loro e corrotti come un ceto nazionale e periferico che paga lauti e non sorprendenti affitti ai privati anziché risanare il patrimonio immobiliare pubblico per ospitare uffici, scuole, caserme. E non vogliono sapere e ricordare che quelli nostri sono i tesori che ricadono in un Paese che raccoglie deve conservare il 60% del patrimonio artistico dell’umanità, case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, destinate a finire in rapaci mani private.
Ricordiamo loro che quelle mura, quei manufatti fanno parte di un tessuto urbano e territoriale che compone la nostra identità, che racchiude la nostra memoria, che punteggia il nostro paesaggio potente e fragile, sono parte del messaggio che abbiamo raccolto e dovremmo perpetuare e che è un messaggio di bellezza e di genio. Al quale non vogliamo rinunciare per consegnarlo nelle mani di nuovi e vecchi arricchiti magari grazie a spericolate scorribande da corsari nel mare infido della finanza creativa. O di tycoon che li vogliono come scrigni caparbi della loro accumulazione ottusa, o di imprenditori che scelgono di investire in loghi futuri per i loro prodotti o in riciclaggi provvidenziali anziché in tecnologia, sicurezza e lavoro qualificato.
E dobbiamo anche ricordare loro che molti di questi beni, nel corso del tempo, sono stati restaurati, tutelati e mantenuti grazie alla fiscalità degli italiani che pagano le tasse, con il nostro concorso e più che mai, anche per questo sono nostri, inalienabili e legittimi. Mentre non è legittimo venderli per ripianare un debito che è pubblico in quanto grava su tutti noi, ma che è originato cattive e incaute gestioni economiche e finanziarie squisitamente private, perché tale è anche la manutenzione del privilegio e del personalismo, degli affarismi clientelari dei gruppi di potere, delle inutili “grandi opere”, dell’assistenzialismo alle grandi imprese, dell’accettazione supina anzi del favore rivolto all’evasione, fino alla correità con la criminalità organizzata.
E vogliamo anche ricordare loro che sappiamo bene che il patrimonio di tutti non si deve toccare, come non dobbiamo concedere loro di toccare i nostri diritti, il nostro lavoro e perfino i nostri corpi, venduti come merce su quella cassetta rovesciata che è lo squallido mercato globale.