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Gli animali parlanti sono la voce della coscienza

Creato il 01 marzo 2014 da Astorbresciani
Gli animali parlanti sono la voce della coscienzaGli manca solo la parola. Quante volte ci è capitato di proferire o sentire questa frase, riferita a un animale domestico o più in generale a una bestia il cui comportamento ci ricorda un essere umano? Tante. In realtà, anche gli animali hanno un linguaggio e comunicano, solo che hanno un modo tutto loro di farlo, in sostanza non parlano. Facciamo fatica ad accettare questo limite e fin dall’antichità ci siamo sforzati di dare voce agli animali, consci che, in fondo, non sono così diversi da noi. La letteratura è il campo in cui la finzione si è maggiormente sbizzarrita. Esopo non fu il primo ma è forse l’archetipo dei creatori di favole che hanno come protagonisti gli animali parlanti. Altrettanto noto, però, è Fedro, che visse a Roma come schiavo e poi liberto al tempo di Augusto. Ma è soprattutto nel Medio Evo, l’epoca in nascono i bestiari e il fabliaux, che gli animali diventano loquaci e colpiscono l’immaginario collettivo. In tal senso, fa scuola il ciclo narrativo del Roman de Renart, in cui si distinguono la volpe Renart, il leone Noble, l’orso Brun, il gallo Chantecler, il gatto Tibert e il lupo Ysengrin. L’antica favola esopica rifiorì nell’età moderna. Verso la fine del Seicento, vennero alla luce le celebri favole di La Fontaine, inventore di un mondo saggio in cui il corvo, la volpe, il lupo, l’agnello, la rana, il bove, il topo di città e quello di campagna compongono scene della commedia umana dominate dalla prepotenza, dall’ingenuità e dalla furbizia. Contemporaneamente, nasce un genere nuovo. Alla favola si affianca la fiaba, una inedita, ghiotta occasione per dare voce agli animali. Il precursore è Giovambattista Basile col suo Lo cunto de li cunti, una raccolta di cinquanta fiabe cui attingeranno in molti, fra cui Charles Perrault, coevo di La Fontaine e autore del famoso Il gatto con gli stivali e de I racconti di mamma oca. Da quel momento in poi, sarà tutto un fiorire di animali ciarlieri, riproposti o inventati per la gioia di grandi e bambini. L’elenco degli autori e delle opere è sterminato. Nel Settecento e nell’Ottocento, gli animali parlanti hanno dapprima ispirato l’abate Giambattista Casti e poi grandi autori, fra cui Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver), Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie), Rudyard Kipling (Il libro della giungla), Carlo Collodi (Le avventure di Pinocchio) e Hans Christian Andersen (Fiabe), per citare i più noti. Infine, i fuochi d’artificio del Novecento, un secolo in cui gli animali diventano persino prolissi. Chi non ha letto La fattoria degli animali di George Orwell, Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach e Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov? In tempi più recenti, bambini e ragazzi sono rimasti ammaliati dagli animali parlanti di Philip Pullman, l’autore de La bussola d’oro, e da quelli di Clive Staples Lewis, geniale creatore de Le cronache di Narnia. Il XX secolo ha visto nascere nuovi animali parlanti e alla loro proliferazione ha contribuito il cinema, che ha spesso attinto alla letteratura e a nuove forme di espressione artistica, i fumetti e i cartoni animati. E qui, apriti cielo! Da Walt Disney in poi, passando per i cartoons di Hanna & Barbera e senza dimenticare la saga di Francis il mulo parlante (sette divertenti commedie degli anni Cinquanta), è un florilegio di personaggi animali che incarnano le qualità (rare) e i difetti (troppi) del genere umano. A questo punto, mi viene da chiedermi cosa abbiano in comune il leone Aslan e il grillo parlante di Pinocchio, Gatto Silvestro e il maialino Babe, Paperino e la tigre Shere Khan, Scooby Doo e la volpe de Il piccolo principe. E mi domando perché gli esseri umani abbiano sentito il bisogno di umanizzare gli animali, concedendo loro, se pure grazie alla finzione, il dono della parola. Non c’è una sola risposta, ce ne sono diverse. Va da sé che fin dai tempi più remoti, il velo dell’allegoria è stato lo strumento attraverso il quale esprimere le verità scomode e pericolose. Ci si salvava la pelle facendo dire a una bestia parlante ciò che detto da un uomo avrebbe avuto un peso diverso e terribili ripercussioni. L’animale parlante poteva opporsi al potere dispotico godendo di una certa immunità, sicché le parabole, gli apologhi, le metafore e la satira diventavano le armi con cui ribellarsi o più semplicemente schernire e dileggiare i potenti, combattere i soprusi, fustigare i vizi. Per secoli, abbiamo usato gli animali per parlare a noi stessi, convinti, così facendo, di essere più incisivi. L’epopea degli animali parlanti, un fenomeno che resiste alle mode e al tempo, è la soluzione divertente alla nostra atavica incapacità di guardarci allo specchio e riconoscere i fantasmi che popolano il fondale. Non sappiamo ammettere le nostre paure, le nostre colpe, il mistero delle nostre pulsioni e soprattutto, la nostra origine animale. A volte, siamo più bestie delle bestie e affidare al regno animale i nostri pensieri e i bisogni primordiali significa alleggerirci, creare una sorta di diaframma che ci distacchi dalla verità, esorcizzare i timori ancestrali. La comicità, l’effetto caricaturale e i paradossi di cui l’animale parlante è latore, ci aiutano ad accettare e insieme respingere le presenze che si agitano nella nostra zona d’ombra. In definitiva, gli animali parlanti sono la proiezione della nostra psiche e ad essa si rivolgono per ammonirci, consolarci, istruirci e mostrarci la vera natura umana. La loro voce è la voce della coscienza. Perciò non possiamo farne a meno. Negli ultimi tempi, in virtù del fatto che ho tre nipotine molto piccole, seguo in televisione le avventure minimaliste di Peppa Pig e della sua famiglia. È un cartoon inglese che sta spopolando e del cui successo non riesco a comprendere la ragione. Peppa, la maialina protagonista, è capricciosa eppure i piccolini l’adorano. Che sia un segno dei tempi? Può darsi. Ogni generazione sceglie i suoi modelli e gli animali moraleggianti sono obsoleti, come i vecchi maestri di scuola e i nonni che insegnano le buone maniere. Sono altre le cose che contano e agli animali parlanti chiediamo più facilmente di divertirci anziché educarci, di essere come noi invece che migliori di noi, di rendere plausibile la mediocrità, la furbizia e la prevaricazione. Con buona pace di Esopo e dei suoi epigoni. 
Dal momento che oggi cade il sabato grasso, giusto per restare in tema, non mi resta che ascoltare il Carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns. Se non avete mai apprezzato questa musica così famosa e bella, dagli effetti comici e canzonatori, non perdete l’occasione per conoscerla. In essa, gli animali parlano, ci parlano. Nei quattordici brani che compongono l’opera, si colgono pensieri, emozioni e buffi comportamenti animali che ci inducono al sorriso, il che non guasta in tempi di magra. Come diceva il goffo coniglio animato Roger Rabbit,  “se non si ha un po’ di senso dell’umorismo è meglio essere morti”. 
E questo è tutto, amici - parola di Porky Pig, alias Pallino.

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