Dopo gli altalenanti esordi scaligeri (il buon riscontro di Oberto, Conte di San Bonifacio nel novembre del 1839 e il fiasco completo dell’Opera buffa Un giorno di regno dieci mesi dopo), Giuseppe Verdi, segnato dalla tragica sequenza di lutti che gli portò via, nel giro di 3 anni, due figli ancora in fasce e la moglie Margherita Barezzi, era ormai sul punto di abbandonare le velleità teatrali per ripiegare su una carriera musicale più modestamente didattica. A distoglierlo provvidenzialmente dai suoi propositi fu l’impresario Merelli che gli passò un libretto scritto da Temistocle Solera, con il quale il bussetano aveva già collaborato per l’Oberto, ambientato ai tempi della cattività babilonese e intitolato Nabucodonosor. La buona qualità del libretto e l’ambientazione che ne favoriva una rilettura in chiave risorgimentale ebbero facilmente il sopravvento sui propositi di ritiro e il compositore si buttò a capofitto nella scrittura della musica. Il trionfo, sempre alla Scala, nel marzo del 1842 fu assoluto e il coro degli ebrei, Va, pensiero, fu subito adottato come inno di libertà della causa indipendentista. Il compositore, non ancora trentenne, si ritrovò ad essere, da giovane musicista di buone speranze sull’orlo di una crisi irrimediabile, astro nascente del teatro musicale italiano e punto di riferimento del Risorgimento.
Nei successivi sette anni, Verdi fu subissato dalle commissioni, sostenendo ritmi di scrittura frenetici e continui viaggi, dapprima in Italia (Milano, Venezia, Roma, Napoli, Firenze, Trieste) e successivamente a Londra e Parigi. Il compositore stesso battezzò questo periodo “anni di galera”. Il frutto furono dodici nuove Opere e il riadattamento in francese di una di queste. Per iniziare, tentò una replica, discretamente riuscita, del Nabucco, I lombardi alla prima crociata, sempre su libretto di Solera, sempre alla Scala e sempre aperto a una rilettura in chiave risorgimentale; l’Opera venne revisionata e riproposta in lingua e ambientazione francese come Jerusalem per il debutto all’Opera parigina del 1847. Il rinnovato successo di pubblico e critica consentirono a Verdi una maggiore libertà di scelta tra le innumerevoli proposte che gli arrivavano. Nel 1844, iniziò a collaborare con un giovane librettista, Francesco Maria Piave, probabilmente il più complementare al grande compositore. Oltre ad avere qualità poetiche, Piave aveva un carattere docile: l’ideale per Verdi che aveva ben chiare le sue idee drammaturgiche e necessitava di un librettista capace di svilupparle letterariamente.
Il sodalizio ebbe buoni riscontri da subito, con l’Ernani per La Fenice di Venezia e I due Foscari all’Argentina di Roma ad aprire e chiudere il 1844. Negli anni successivi, con Piave che si alternava a Solera e più sporadicamente a Cammarano, non sempre le cose andarono altrettanto bene e, tutto sommato, solo alcuni dei numerosi lavori possono essere annoverati tra i maggiori verdiani (oltre all’Ernani, Macbeth e Luisa Miller) e pochi altri possono vantare ancora un discreto repertorio. Ma la cosa fondamentale fu che Verdi ebbe modo di confrontarsi con giganti della drammaturgia come Shakespeare (oltre al Macbeth, alla Pergola di Firenze nel 1847, successivamente revisionata per l’edizione parigina del 1865, iniziò in questi anni l’ossessione mai risolta per il Re Lear), Schiller (Giovanna d’Arco, I Masnadieri, Luisa Miller) e Victor Hugo (Ernani,), oltre a geni della letteratura come Voltaire (Alzira) e Byron (Il corsaro, I due Foscari). A far fede di questo interesse prioritario per la resa scenica, le disposizioni fornite ai cantanti e la lettera a Cammarano del novembre del 1848, con cui Verdi lamentava la scelta dell’Opera parigina di far interpretare, nella prima rappresentazione d’Oltralpe del Macbeth, la Lady a una delle più acclamate dive del momento, dotata, a detta del maestro, di una voce troppo bella per poter rendere con fedeltà il carattere tenebroso del personaggio. In questo modo, l’innato senso per il teatro del cigno di Busseto ebbe una rigogliosa fioritura, accompagnata da una sempre crescente maestria nell’orchestrazione.
Gli ultimi anni di questo periodo “galeotto”, dal debutto veneziano dell’Attila del 1846 a quello triestino dello Stiffelio del 1850, furono intensi non solo per il protrarsi del ritmo compositivo, ma anche per la nascita del legame sentimentale con la cantante Giuseppina Strepponi, con la quale iniziò una convivenza a Parigi per poi trasferirsi a Busseto, dove comprò la tenuta di Sant’Agata, e per l’onda lunga rivoluzionaria del 1848 che lo vide prima testimone dei moti parigini che portarono alla caduta di Luigi Filippo; quindi, accorrere entusiasta a Milano alla notizia delle 5 Giornate; infine, presentare, con esiti trionfali, un’altra Opera dalla forte connotazione risorgimentale, La Battaglia di Legnano, nella cornice dell’entusiasmante quanto effimera esperienza della Repubblica Romana. Proprio l’intervento francese a ripristinare il potere del Papa, unitamente alla delusione per il fallimento delle rivoluzioni, lo convinse a trasferirsi nella natia Busseto.
Le ultime due Opere degli Anni di galera, la Luisa Miller, presentata al San Carlo di Napoli con esito dapprima tiepido e successivamente favorevole, e il già citato Stiffelio al Teatro Grande di Trieste nel 1850, contrastato dalla censura e sfortunato anche nella ripresa come Aroldo del 1857, ma rivalutato in tempi moderni, mostrarono un Verdi ormai pronto ai grandi capolavori che seguiranno a breve, come l’insuperabile sintesi di teatro e musica del Rigoletto, presentato trionfalmente appena un anno dopo a Venezia, il Trovatore, la Traviata, entrambi del 1853, e i capolavori della piena maturità.