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Gli infortuni non finiscono mai

Creato il 02 febbraio 2012 da Basketcaffe @basketcaffe

Lo sblocco del lockout coinciso con l’arrivo del Natale ha portato al Babbo Natale David Stern due letterine: una buona ed una cattiva.
La buona (per tutti i tifosi ed addetti ai lavori) è il calendario delle 66 incandescenti partite che le 30 franchigie NBA dovranno affrontare per stilare la classifica NBA valida per i Playoff di post season.
L’altra (quella brutta) è la lista dei giocatori che affollano le infermerie delle squadre NBA.
Purtroppo la suddetta lista è tutt’altro che breve e solo per fare qualche nome di chi è dovuto stare fermo o lo è tutt’ora possiamo citare: Horford, Bargnani, Rondo, Maggette, Deng, Hamilton, West, Kidd, Nowitzki, Lawson, Hibbert, Blake, Arthur, Zach Randolph, Bogut, MarShon Brooks, Brook Lopez, Gordon, Maynor, Sefolosha e Ginobili, oltre agli ultimi due che si sono aggiunti George Hill e Nicolas Batum.

In particolare è opportuno spendere due righe sugli infortuni del nostro Andrea Bargnani e Andrew Bogut.
Il primo è l’esempio purtroppo tangibile di cosa vuol dire quest’anno essere il go-to-guy di una squadra in NBA: Andrea si fa male contro i Kings a Sacramento, salta 6 partite e torna in campo contro i Suns. I Raptors interrompono la striscia perdente di 8 partite ma il Mago appena rientrato gioca la bellezza di 42 minuti, ad appena una decina di giorni dall’infortunio. La partita dopo è il giorno successivo, contro gli Utah Jazz: Andrea gioca altri 40 minuti, Jazz battuti ma Bargnani si strappa ancora quel polpaccio.
Ora il Mago è ai box per un bel po’ e c’è da riflettere sulla gestione di un giocatore che deve accollarsi il destino della propria squadra. In buona sostanza ciò che appare evidente è che oggi i leader delle squadre NBA “non possono” infortunarsi, e quando succede e ritornano in campo non hanno la possibilità di avere un minutaggio limitato per poter recuperare completamente: il rischio il più delle volte è quello di ricadere nello stesso infortunio, provocando un danno a se stessi oltre che alla propria squadra.

Gli infortuni non finiscono mai

Triste pure la storia di Andrew Bogut anche se dovuta forse più al caso che al fitto calendario: nella partita della scorsa stagione contro i Suns il centro dei Bucks dopo una schiacciata cade malamente sul braccio destro riportando la lussazione del gomito, la distorsione del polso e la frattura della mano.
E quest’anno dopo appena 12 partite Bogut deve ancora salutare la stagione agonistica, chiusa in anticipo a causa della frattura della caviglia.
In entrambe le situazioni citate appare evidente che la poca preparazione atletica svolta nella settimana antecedente l’inizio della nuova stagione e la mancanza di coraggio da parte degli allenatori (nell’allungare le rotazioni al fine di garantire adeguato riposo ai propri giocatori migliori) sta rendendo sempre più preoccupante il fenomeno degli infortuni nell’NBA.

Gli incidenti fisici fanno parte dello sport, si verificano in ogni disciplina, tuttavia in questa frenetica stagione cestistica si sta forse trascurando (soffocando il tutto per far piacere al Dio Business) che la salute dei propri giocatori è importante più dell’incasso al botteghino.
Nella stagione attuale è più che mai doveroso per una squadra avere un organico attrezzato per poter predisporre le dovute precauzioni: una squadra vincente oggi non è solo quella che presenta i big two, three, four ecc.. ma è una squadra con un line-up competitivo, con l’aggiunta di una panchina profonda che possa fornire ricambio di energie fisiche e mentali a tutti i componenti del quintetto iniziale.

Pensare di poter ignorare il problema non è il modo migliore per provvedere a risolverlo: considerando la qualità dei giocatori e degli addetti ai lavori, appare doveroso richiedere una riflessione più approfondita sui reali limiti imposti dal corpo umano, e su come si possono raggiungere risultati sportivi importanti senza mettere a rischio la salute di chi pratica questo sport.



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