Nei caldi pomeriggi domenicali di alcuni anni fa, a volte io e la piccola andavamo a visitare Cowboyland, parco tematico distante alcune decine di chilometri da casa mia, nella sconsolata (e sconsolante) pianura padana. Per la piccola era un piccolo salto all’indietro in un mondo sconosciuto, quello dei cowboy, dei pellerossa, dei bisonti, dei pony da cavalcare, che finiva inevitabilmente nel negozio posizionato strategicamente prima dell’uscita, con l’acquisto di qualche gioco o souvenir (o tutt’e due le cose). Poi durante il viaggio di ritorno immancabilmente la piccola si addormentava in auto, stanca per le avventure vissute e impolverata dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi.
Vabbe’, sto invecchiando…
Anch’io ho fatto un piccolo salto all’indietro leggendo questo appassionato e appassionante libro di Vittorio Zucconi (uno dei decani dei giornalisti di Repubblica, bravo, simpatico e sempre gentile e corretto).
Gli spiriti non dimenticano è la storia di Cavallo Pazzo, leggendario e misterioso capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù dei Lakota Sioux, morto il 5 settembre 1877 all’età di (forse) 33 anni.
Zucconi ne racconta la storia, intrecciandola ovviamente con quella del suo popolo e della progressiva conquista dell’ovest da parte dell’uomo bianco, che coincise con lo sterminio dei pellerossa (erano circa un milione nel 1804 e 237mila alla fine del secolo) e dei bisonti, loro principale fonte di sostentamento (da 50 milioni si ridussero a mille nello stesso arco temporale) e l’occupazione delle loro terre.
L’uomo bianco con la violenza e l’inganno distrusse la cultura della prateria, del cavallo e del bisonte, del Grande Spirito, così come ha distrutto qualsiasi altra cultura con la quale è venuto a contatto.
“Per voi bianchi e cristiani, la Terra è l’inferno, il luogo di esilio temporaneo nel quale il Grande Spirito vi ha confinato, cacciandovi dal paradiso terrestre, dunque un luogo da attraversare e cambiare, lungo la strada del ritorno all’Eden. Per noi indiani, la Terra è il paradiso, il luogo che lo Spirito ha creato e scelto appositamente per noi, e che non abbiamo dunque né il diritto, né la voglia di cambiare.”
E’ chiaro che due visioni del mondo così opposte non potessero convivere e quella tecnologicamente più debole perì.
Cavallo Pazzo non era un capo indiano nel vero senso della parola. Era un capo guerriero, riconosciuto e stimato per il suo valore in battaglia, per la sua coerenza. Era uno di quelli che avevano assistito da piccoli allo sterminio di un villaggio indiano e che non credevano alle promesse e alle lusinghe dei soldati. Piccolo di statura, vestiva con una pezzuola di pelle attorno ai fianchi e portava un’unica piuma di falco rosso tra i capelli. Fu uno dei capi che tentarono di mettere in atto alcune strategie di battaglia, contro i soldati ormai armati di fucili a ripetizione, mitragliatrici e cannoni e anche contro l’insubordinazione e l’imprudenza dei giovani guerrieri Sioux.
Cavallo Pazzo fu uno dei protagonisti della vittoria dei pellerossa nella battaglia del Little Big Horn, quella in cui fu sconfitto il generale Custer (che in realtà generale non era).
Ma il tempo dei pellerossa era ormai finito. Terminata la guerra civile americana, il governo degli Stati Uniti si concentrò sull’occupazione completa dell’ovest, travolgendo i pellerossa e costringendoli a vivere delle loro elemosine. Cavallo Pazzo alla fine accettò di deporre le armi e si consegnò ai soldati, per salvare dalla fame quello che restava del suo popolo, ma finì infilzato alla schiena dalla baionetta di un soldato.
Il libro di Zucconi riporta alla loro dimensione di uomini questi indigeni che popolavano il Nordamerica prima dell’arrivo di Colombo; uomini come gli altri, con i loro pregi e difetti, costumi e tradizioni, destinati a soccombere alla “civiltà”.