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Gli studi sull’elettricità nati nell’alveo cattolico

Creato il 21 agosto 2013 da Uccronline

Scienziati dunque credenti 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Nella storia della cultura, l’Italia, il paese cattolico per eccellenza, non è solo la patria dell’arte, delle cattedrali, la terra di Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Bernini eccetera, ma anche la culla della scienza.

Le università italiane infatti hanno un ruolo fondamentale, sin dal basso medioevo, nella creazione di una cultura scientifica in campo anatomico, astronomico, medico… Italiane sono anche le due prime accademie scientifiche, l’Accademia del Cimento di Firenze e l’Accademia dei Lincei di Roma. Nel nostro paese si formano personalità di spicco, sia italiane, che straniere. Sino al grande Galilei. La vulgata vorrebbe che proprio il processo allo scienziato pisano segni una frattura tra mondo della scienza e Italia cattolica e papalina. Non è così. Per altri centocinquant’anni circa, infatti, cioè sino alla grande crisi dovuta alle invasioni napoleoniche ed al cosiddetto Risorgimento (gli anni in cui perdiamo ogni primato culturale, medico, scientifico…), il nostro paese rimane al centro di grandi progressi e di grandi scoperte. Ad esempio nel campo dell’elettricità, in cui si segnalano gli immensi e imprescindibili contributi di Luigi Galvani ed Alessandro Volta.

La loro storia, poi, insieme a quella di molti altri pionieri nel campo dell’elettromagnetismo, ci riconduce ancora una volta al rapporto fecondo, e per nulla conflittuale, tra scienza e fede. «William Gilbert (1540-1603) osservò, in modo sistematico, che circa una ventina di corpi, oltre l’ambra, sono in grado di attrarre a se leggeri corpuscoli; tra questi, lo zolfo, il vetro, la gommalacca, le resine solide e molte pietre dure. Egli chiamò questi fenomeni elettrici dal nome greco dell’ambra (electron) e per misurare l’intensità delle forze attrattive utilizzò uno strumento, precedentemente descritto da Girolamo Fracastoro (1483-1553), costituito da un piccolissimo e leggerissimo ago (versorium non magneticum), girevole sopra un sostegno a punta. Successivamente Francesco Lana rese lo strumento più sensibile sospendendolo mediante un filo. Nel 1629 Nicola Cabeo (1585-1650) osservava il fenomeno della repulsione elettrica, notando come le pagliuzze, attratte dal corpo elettrizzato, vengono successivamente da questo respinte, dopo averlo toccato». Inizia così una breve storia degli studi sull’elettromagnetismo a cura del fisico G. Bonera, dell’Università di Pavia. A queste poche righe, visti gli interessi specifici di questa nostra ricerca si potrebbero fare alcune postille: prima di Gilbert, l’unico studio di un certo valore, anche sperimentale, sul magnetismo, era stato condotto nel XIII secolo dal frate Petrus Peregrinus; quanto a Francesco Lana, era un sacerdote gesuita; così pure Nicolò Cabeo. Come inizio, ai fini del presente capitolo, non è male.

Ma facciamo un salto in avanti, arriviamo ai due giganti in materia: Luigi Galvani (1737-1798) ed Alessandro Volta (1745-1827). Il primo, bolognese, medico, fisico, anatomista, professore universitario, è ricordato come lo scopritore dell’elettricità animale e per le svariate applicazioni dell’elettricità, come la cella elettrochimica, il galvanometro e la galvanizzazione.  Ebbene, Luigi Galvani era uomo di profonda fede cattolica, terziario francescano, che non ometteva mai di collegare la sua attività di scienziato, curioso e amante della realtà, con la sua religiosità e la sua convinzione che nella natura sia visibile il suo Creatore (C. Mesini, Luigi Galvani, terziario francescano, Vallecchi, Firenze 1938). Si può qui ricordare parte del sonetto scritto dal Galvani in occasione della morte della sua amatissima moglie: «Poiché tu mi lasciasti a pianger solo/Dolce Consorte, e del tuo fral disciolta/ alla Magion del Ciel ten gisti a volo/quai sien miei giorni per pietade ascolta./ Gemo e per volger d’ore non consolo/l’alma, che ho sempre al tuo partir rivolta/e pace ho sol allorchè sfogo il duolo/ quella tomba in baciar, che t’ha raccolta./Non però chieggio al mio penar s’accordi/ fine, ma sol che tu pietosa a Dio/l’offra, onde i falli miei più non ricordi/…».

Contemporaneo del Galvani fu Alessandro Volta, l’altro gigante degli studi sull’elettricità. Il conte Volta, vita dimessa, animo sereno e amichevole, carattere amabile, a dire di tutti, fu un grande scienziato sperimentale ed inventore. Fu ingegno così versatile da offrire contributi nel campo dell’elettrostatica, elettrometria, meteorologia, chimica, pneumatica e geologia, termologia… a lui dobbiamo sopratutto l’invenzione della pila, il primo generatore di corrente continua nella storia dell’umanità, con cui ebbe inizio la moderna era dell’elettricità e che Einstein definì “la base fondamentale di tutte le invenzioni moderne” (da Volta prende nome il “volt”, l’unità di misura della differenza di potenziale che Volta definiva come “tensione”). Ebbene, leggendo una biografia di Volta, si può scoprire che i suoi interessi nel campo dell’elettricità, nati senza dubbio anche grazie all’eccellenza della scuola dei Gesuiti in cui studiò, e al gabinetto privato di storia naturale che un amico, il sacerdote Giulio Cesare Gattoni, fisico per passione, gli mise a disposizione, sorsero già a diciassette anni, allorché «si diede a meditar profondamente le opere del padre Beccaria sull’elettricità naturale ed artificiale, l’opera di Nollet ed altre» (G. Dioguardi, La scienza come invenzione. Alessandro Volta, Sellerio, Palermo 2000, pp. 36 ss.).

Chi erano questi due personaggi, con cui Volta si sarebbe a lungo confrontato, con apprezzamenti e critiche (in particolare col primo, cui indirizzò persino la sua prima memoria, pubblicata nel 1769, De vi attractiva ignis electrici ac phoenomenis inde pendentibus)? Beccaria (1716-1781) era un sacerdote scolopio, allora celebre professore di matematica nella Regia Università di Torino, membro della Royal Society di Londra, definito “il più insigne fisico elettrizzante italiano dell’epoca”. Beccaria fu considerato in Europa come «l’uomo che seppe abbinare teoria e pratica. In particolare nel progetto e realizzazione della prima macchina basata sul nuovo fenomeno: il parafulmine. Protesse così San Marco a Venezia, il Palazzo del Quirinale a Roma, il duomo di Milano, polveriere e navi della repubblica di San Marco. Beccaria può essere a ragione considerato come il padre dell’Elettricismo italiano perché stimolò numerosi validi ricercatori, da Volta a Cigna, a operare nella nuova disciplina, con il consenso e molte volte con un dissenso che sapeva essere aspro – aveva infatti un carattere alquanto difficile-, ma sempre dando esempio di rigore e di un vero metodo galileiano».

Chi era invece Jean Antonie Nollet (1700-1770)? Sacerdote, professore di fisica a Parigi, Torino, Bordeaux, Bologna… Fu autore della scoperta del fenomeno dell’endosmosi, e di notevoli ricerche di elettrologia, che lo portarono, fra l’altro, a enunciare una teoria del “fluido elettrico”. Inventò il primo elettroscopio, poi messo a punto da Volta, nel 1747. E gli altri amici e corrispondenti di Volta? La seconda memoria del fisico comasco fu dedicata al sacerdote don Lazzaro Spallanzani, professore a Pavia (che tra le altre cose, per il suo studio del 1793 sul volo dei pipistrelli, grazie al “sesto senso” degli ultrasuoni, è il padre più remoto del radar e dell’ecografia). Fu invece a Joseph Priestly, nel 1775, che Volta annunciò la sua prima invenzione, l’elettroforo perpetuo. Priestly era un teologo e pastore protestante, che oltre ad aver isolato l’acido cloridrico e l’ammoniaca, ad aver scoperto un nuovo gas infiammabile, l’ossido di carbonio, e ad aver semplificato le tecniche per la preparazione e conservazione dei gas.

Chi fu, per concludere, il successore di Volta sulla cattedra di Fisica di Pavia, nel 1804? L’abate barnabita Pietro Configliachi, destinato a divenire rettore dell’intera università nel 1811. L’enciclopedia Treccani ricorda che “il Volta dimostrò la sua amicizia al Configliachi con incoraggiamenti e consigli, collaborando con lui in alcune esperienze e stimandolo tanto da indirizzargli la lettera sulle esperienze da intraprendersi sulle torpedini (Como, 15 luglio 1805), e da permettere che pubblicasse la sua memoria sull’identità del fluido elettrico col fluido galvanico”. Sarà un altro religioso, questa volta non più operativo a Pavia, l’abate veronese Giuseppe Zamboni, ad inventare, nel 1812, l’elettromotore perpetuo e la pila elettrica a secco (di lunga durata, risolve alcuni difetti delle pile voltiane), scoperta che l’autore comunicò per lettera ad Alessandro Volta, e che gli valse la fama in Europa, e la collaborazione con Ampère, Wollaston, Faraday, e Dalton.

Ma cosa pensava Volta in relazione alla fede? Sappiamo con certezza che era un credente esemplare: andava a messa tutti i giorni, recitava il Rosario quotidiano e nei pomeriggi festivi spesso spiegava il catechismo ai fanciulli nella sua chiesa parrocchiale di san Donnino di Como (vi è ancora oggi, nella chiesa, una lapide a ricordarlo). Il Vanzan ricorda due episodi significativi, entrambi del 1815, «che meglio illustrano non solo la coniugazione di fede e scienza in Volta, ma anche il suo zelo nell’aiutare quanti si trovavano in crisi di fede. Anzitutto c’è l’incontro con Silvio Pellico nella dimora estiva dei conti Porro, testimoniato nella lettera del Pellico al Porro (22 settembre 1815). Da una successiva lirica del Pellico (il carme “Alessandro Volta”, ndr) sappiamo che egli allora era praticamente ateo e che il Volta rispose con tali argomentazioni da mettergli in cuore quel germe di fede che poi maturerà nel carcere dello Spielberg. L’altro episodio riguarda la “professione di fede”, inviata al canonico G. Ciceri di Como (lettera n. 1.703), in cui testualmente scrive: “Ho mancato è vero nelle buone opere di Cristiano Cattolico e mi son fatto reo di molte colpe, ma per grazia speciale di Dio non mi pare d’aver mancato gravemente di fede, e certo sono di non averla mai abbandonata. Se quelle colpe e disordini miei han dato luogo a taluno di sospettare in me anche l’incredulità dichiaro apertamente a lui, e ad ogni altra persona, e son pronto a dichiarare in ogni incontro, ed a qualunque costo, che ho sempre tenuta e tengo per unica vera ed infallibile questa Santa Religione, ringraziando senza fine il buon Dio d’avermi infusa tal fede in cui mi propongo di vivere e morire con ferma speranza di conseguire la vita eterna» (S. Bergia at al., Dizionario Biografico degli Scienziati, Zanichelli, Bologna 1999, pp. 1496-1498 e P. Vanzan, Alessandro Volta: l’uomo, lo scienziato, il credente, in «Civiltà Cattolica», 150 (1999), q. 3577, 13-26)

Per concludere non si può non ricordare, almeno en passant, altri tre grandissimi protagonisti di questa storia, dell’elettricità e del magnetismo: Michael Faraday (1791-1867), membro della Sandemanian church (cristiana-protestante), cui si devono le “leggi di Faraday”, l’“effetto di Farady”, la “gabbia di Faraday” ecc.; il francese Andrè Marie Ampère (1775-1836), mentore ed amico di Cauchy, cui è dedicata l’unità di misura “ampére” e Guglielmo Marconi (1874-1937), inventore della radio e premio Nobel per la Fisica nel 1909. Tutti e tre professarono apertamente la loro fede in Dio e in Cristo.

Riguardo al primo, un suo biografo racconta che Faraday era «continuamente invitato ad essere ospite di potenti e nobili, ma egli avrebbe voluto, se possibile, declinare, preferendo visitare la sua povera sorella, assisterla, bere il the con lei e leggere la Bibbia e pregare» (J. Kendall, Michael Faraday: Man of Simplicity, Faber and Faber, London 1955, p. 171). Andrè Marie Ampère, di nobile famiglia francese, ricevette dai genitori una fede cattolica molto solida, che fu messa certamente alla prova, in svariate circostanze, sia dallo spirito dei tempi che da alcuni avvenimenti dolorosi della sua vita, quali la morte della moglie. Il pensiero delle “cose eterne” e la preghiera rimasero elementi costanti della sua vita intellettuale, come testimonia questa lettera da Bourg alla moglie malata (1803): «Le idee su Dio e sull’eternità sono dominanti tra tutte quelle che eccitano la mia immaginazione, ed a seguito di alcuni pensieri e riflessioni assai singolari, i dettagli dei quali sarebbero troppo lunghi da esporre, ho deciso di chiederti i Salmi di François de la Harpe che dovrebbe trovarsi in casa, rilegati – mi sembra – in verde, e un libro delle Ore a tua scelta».

Quanto infine a Guglielmo Marconi, basti questa testimonianza postuma della figlia Maria Elettra, apparsa su «La Repubblica» del 10 febbraio 2011. Ella ricorda così l’amicizia tra suo padre a il papa Pio XI: «Fu Pio XI in persona a chiedere a mio padre di progettare la radio Vaticana verso la fine degli anni Venti. E mai invito fu accettato con più grande entusiasmo. Mio padre aderì sia come scienziato che come credente». Pio XI, continua la figlia di Marconi, «oltre ad essere un grande pontefice era un uomo di scienza, legato a mio padre da una profonda amicizia. Un Papa moderno che vedeva nella ricerca scientifica e nel progresso doni di Dio che ogni persona illuminata deve mettere a disposizione dell’umanità. Con questi sentimenti il Papa si rivolse a mio padre». Il quale lavorò alla radio Vaticana «per circa due anni con grande emozione, perché anche lui era affascinato dall’idea che la sua radio sarebbe stata un potente mezzo per far arrivare la voce del Papa in tutto il mondo. Una voce, mi ricordò spesso, che parlava di pace, amore e fratellanza». Quando terminò il progetto, Marconi era “emozionatissimo”, «specialmente quando invitò Pio XI a parlare al primo storico microfono da lui ideato e che ora è esposto nella sala di ingresso della Radio Vaticana. Mio padre era veramente felice per la riuscita di quell’impresa. Come pure papa Ratti che ci ha sempre invitato in Vaticano in lunghissime amichevoli udienze che duravano anche 2-3 ore. Io, pur essendo piccolina, ero sempre presente…».

Da Scienziati dunque credenti, Cantagalli, II edizione, 2013


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