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Golfo Persico: prospettive di cambiamento?

Creato il 17 dicembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Simone Vettore

Saudi-Arabia
L’accordo raggiunto a Ginevra sul dossier nucleare iraniano ha attirato critiche talvolta feroci sulla politica di appeasement portata avanti dal Presidente Barack Obama; soprattutto la destra repubblicana e conservatrice ha deprecato quello che ai loro occhi appare, a torto o a ragione, l’ennesimo cedimento e segno di debolezza dell’Amministrazione a stelle e strisce dopo i tentennamenti sulla crisi siriana. In questo coacervo di attacchi concentrici tesi soprattutto a speculare a meri fini di politica interna, va riconosciuto a Daniel Pipes, esponente neocon famoso per le sue tesi radicali e “guerrafondaie”, il merito di essere stato tra i pochi ad aver riportato l’attenzione [1] dal fronte interno a quello esterno, concentrandosi sui possibili riflessi negli equilibri complessivi dell’area mediorientale.

Infatti, come noto, a risultare fortemente contrariati dalla piega presa dalla politica estera statunitense non sono stati unicamente gli esponenti del variegato arcipelago della destra o i rappresentanti delle lobby ebraiche né, ovviamente, il solo Stato d’Israele: l’intero mondo arabo sunnita è rimasto profondamente deluso e non ha mancato di dimostrare la sua insoddisfazione e preoccupazione. Pipes, in particolare, nel suo articolo riporta le diverse reazioni (ufficiali od ufficiose, filtrate dai mass media o confidenziali che siano) dei Paesi del Golfo, soffermandosi in special modo sull’Arabia Saudita, principale Stato della regione e partner storico degli Stati Uniti [2]. Il punto forte dell’argomentazione dell’autore, esplicitato purtroppo solo nelle ultime righe, è il seguente: Riyad, venendosi a trovare priva del consueto (e peraltro praticamente incondizionato) appoggio di Washington, sentendosi minacciata da Teheran potrebbe cercare alleanze alternative (con Israele) e contemporaneamente tentare un rilancio della propria leadership regionale, magari dotandosi, alla pari del regime degli ayatollah, del deterrente nucleare (via Pakistan [3]).

Sono queste di Pipes elucubrazioni da tavolino? Lo scenario delineato da quest’autore di un’Arabia Saudita ed in generale dei vari emirati e monarchie del Golfo Persico che, sentendosi abbandonati, avviano una profonda rielaborazione delle rispettive politiche estere ed una ridefinizione complessiva del proprio sistema di alleanze, è plausibile?

Evidentemente, per quanto una valutazione più attendibile potrà essere formulata solo nei mesi e negli anni a venire, l’accordo sul nucleare iraniano (nell’ipotesi che i prossimi step siano implementati senza intoppi) e quello sulla Siria, che per molti aspetti ne ha rappresentato il presupposto politico-diplomatico, ha avuto come conseguenza la parziale riabilitazione di Teheran così come il congelamento della crisi siriana: l’uscita di scena di Bashar el Assad, che fino a qualche mese fa veniva invocata pressoché quotidianamente, non pare essere più in cima all’agenda delle diplomazie occidentali, né è presumibile che ciò avverrà fintantoché Damasco (e non la galassia dei ribelli, che de facto non sono stati considerati come interlocutori) continuerà a collaborare con l’OPAC. Similmente se l’Iran terrà fede agli impegni sottoscritti a Ginevra sarà de facto inattaccabile, legando le mani a quelli che sono, nell’area, i suoi nemici giurati (Israele ed Arabia Saudita in primis): l’establishment di Teheran ha sicuramente guadagnato in un solo colpo un amplio margine di manovra politico-diplomatica.  Alla luce di tutto ciò, la guerra per procura da anni in atto tra islam sunnita ed islam sciita parrebbe essersi risolta, almeno momentaneamente, con una vittoria (tattica o strategica?) di quest’ultimo.

Ma oltre a questo fattore di natura contingente, che come detto poc’anzi andrà valutato sul medio periodo, esistono elementi di carattere più strutturale che spingono a ritenere che assisteremo, negli anni a venire, alla ridefinizione dell’attuale sistema di alleanze il quale, per un insieme di fattori, potrebbe non vedere più gli Stati Uniti come costante controparte.

In altre parole lo scenario prospettato da Pipes potrebbe sì essere verosimile ma a partire da premesse differenti: non tanto (o meglio, non solo) per la politica dell’amministrazione Obama o, se vogliamo, per il relative decline della superpotenza nordamericana (declino tale da non renderla più capace di tener fede ai vari patti stipulati negli anni), ma per l’azione combinata di molteplici fattori, alcuni endogeni altri esogeni all’area mediorientale, che è opportuno qui presentare seppur per sommi capi:

- deterioramento del fronte interno: negli stati del Golfo, diversamente dal Nord Africa, non vi è stato alcun traumatico mutamento di regime [4]; rivolte e scontri di piazza, complice la presenza nella popolazione di una cospicua componente sciita (aspetto che non ha mancato di insospettire ulteriormente i governi dell’area circa le mire destabilizzanti iraniane), hanno avuto luogo in Barhain (2011) ma anche qui il tutto si è risolto con la preservazione dello status quo; esito analogo hanno avuto le ben più blande proteste svoltesi in Arabia Saudita, Oman, Kuwait, etc. In questi ultimi Paesi spesso e volentieri la popolazione è stata rabbonita con elargizioni [5] e promesse di una più equa distribuzione dei proventi del petrolio, generalmente allocati ai soli membri delle tribù e dei clan appartenenti alle famiglie regnanti. L’opzione alternativa di mitigare il malcontento della popolazione attraverso caute riforme istituzionali è stata, in generale, percorsa in modo assai limitato e spesso tutto si è risolto nel ritorno alle urne (evento peraltro non proprio così frequente [6]) giusto per dare una parvenza di “apertura democratica” e sensibilità alle istanze provenienti dal basso.

- al punto precedente si è parlato di “deterioramento” del fronte interno, sottintendendo che si tratta di un processo tuttora in atto; in effetti, complice il quadro economico mondiale e locale che continua ad essere sfavorevole, sorge lecita la domanda se le soluzioni tampone sin qui adottate (leggasi: elargizioni una tantum) saranno sufficienti a contenere il malumore popolare. In effetti, soffermandosi ora sul fronte interno e rinviando al prossimo punto per un’analisi più dettagliata del cruciale settore petrolifero, è quasi banale osservare che le politiche di differenziazione economica avviate negli ultimi anni siano state per molti versi inefficaci. Ragionando infatti a livello di penisola arabica si è scommesso forte sulle infrastrutture (quali aeroporti, reti ferroviarie internazionali e metropolitane) concepite anche e soprattutto a supporto di un’edilizia rivolta a clienti facoltosi che, trasportati in loco da compagnie aeree in vorticosa ascesa come la Emirates o la Qatar Airways, avrebbero dovuto affollare le nuove e superlussuose abitazioni realizzate nel Golfo Persico.

Purtroppo questa vision, tanto affascinante quanto avveniristica (basti pensare a progetti faraonici come The World o  Palm Jumeira a Dubai o ancora al Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo), ha pagato duramente pegno a seguito della crisi dei mutui subprime e del correlato scoppio della bolla immobiliare statunitense: anche nel Golfo i prezzi sono di colpo crollati (salvo riprendersi negli ultimi tempi [7]), molti sono stati i fallimenti ed altrettanti i progetti rimasti incompiuti. Celebre è rimasto, per l’eco avuta sulla stampa di tutto il mondo ed il panico provocato sui mercati internazionali per alcuni lunghissimi giorni (complici gli immediati downgrade da parte delle agenzie di rating), il salvataggio di Dubai World, braccio operativo della holding pubblica Nakheel, da parte dell’emirato di Abu Dhabi (il più ricco dei sette che costituiscono la federazione degli Emirati Arabi Uniti, n.d.r.). Ai fini di questa analisi si tratta di un caso emblematico di come l’attività di diversificazione nell’edilizia abbia dato luogo a fenomeni speculativi piuttosto che favorire la creazione di una reale alternativa economica al petrolio, tanto più che i lavoratori utilizzati sono in larga parte stranieri, tanto a livello di figure apicali (ingegneri, architetti, etc. occidentali) che di maestranze (provenienti soprattutto da Filippine, Indonesia e Bangladesh) [8].

- il petrolio rimane pertanto la principale fonte di ricchezza per la maggior parte degli Stati del Golfo [9], i quali negli ultimi anni a dispetto della minor domanda occidentale hanno potuto godere di prezzi sostenuti (pur senza i picchi di un tempo) [10]; la causa di questa sostanziale tenuta dei prezzi va rintracciata soprattutto nel crollo della produzione da parte di alcuni fornitori tradizionali (Libia) ed al perdurare delle tensioni e delle incertezze in Medio Oriente e nel delta del Niger, oltre che alla sempre cospicua domanda cinese.

Su questo scenario che tutto sommato si potrebbe (considerati i tempi) valutare positivamente aleggia però lo spettro dello shale gas: sul gas di scisto Bloglobal ha di recente pubblicato un approfondito articolo, al quale si rimanda. In aggiunta a quanto lì esposto (in primo luogo il possibile disimpegno dall’area mediorientale da parte degli Stati Uniti i quali entro il 2020, proseguendo di questo passo, avranno raggiunto l’autosufficienza energetica così come, secondo aspetto, la perdita da parte degli stati del Golfo di una importante arma di ricatto da usare nelle relazioni internazionali), sottolineiamo in questa sede come i mancati proventi del petrolio imporrebbero anche una diminuzione di quelle “elargizioni” che come si è visto hanno permesso ai vari re ed emiri di tenere finora sotto controllo la situazione sociale nei propri regni;

- le probabili minori disponibilità economiche (sempre in termini relativi, s’intende) potrebbero avere un’ulteriore implicazione sulla condotta delle politiche estere dei Paesi del Golfo; potrebbe cioè ridursi quell’imponente flusso di denaro che, a partire da charities legate in qualche modo ai gruppi governanti, ha sostenuto centri culturali islamici, scuole coraniche e gruppi vari (talvolta responsabili di azioni terroristiche) dalla Bosnia alla Libia, dalla Siria all’Afghanistan [11]. In altri termini si può ipotizzare una futura diminuzione dell’influenza (perlopiù indiretta) che si era cercato di ottenere, e che in molti casi si era effettivamente raggiunta, sul mondo arabo / musulmano.

Analogamente potrebbe essere sempre più difficile mantenere l’attivismo in  politica estera che ha contraddistinto gli ultimi anni, allorquando si è giocata la carta dell’intervento diretto (come in Libia [12]) o si è chiesto a gran voce l’intervento internazionale (come in Siria), nel chiaro tentativo di aver voce in capitolo nella definizione del quadro politico venutosi a creare a seguito delle Primavere arabe. A riguardo va anzi rilevato come i risultati di questo rinnovato attivismo sullo scacchiere internazionale da parte degli Stati della penisola arabica (politica che potremmo definire neo-omayyade in analogia a quella neo-ottomana portata avanti dalla Turchia di Erdoğan) non siano stati proporzionati agli sforzi compiuti ed alle risorse destinate. Insomma, anche in questo campo il bilancio complessivo è deficitario ed in futuro le cose potrebbero anche andar peggio.

- Ultimo elemento da considerare, e che potrebbe assestare un ulteriore duro colpo all’importanza, su scola globale, dell’area mediorientale nel suo insieme e nello specifico di quella del Golfo, è l’apertura delle nuove rotte artiche; chi vi scrive, in un articolo di qualche mese fa apparso sempre su questo sito, ha messo in rilievo come, nelle intenzioni dei vari Paesi sponsor dei numerosi progetti a riguardo (Russia e Canada su tutti), al traffico mercantile si affiancherebbe lo sfruttamento delle ricche risorse della regione artica (idrocarburi inclusi), i quali verrebbero inviati, alternativamente, ai mercati europei od a quelli asiatici (Cina e Corea del Sud). È superfluo sottolineare che qualora un simile scenario dovesse materializzarsi la rilevanza geopolitica del Golfo Persico subirebbe un sicuro declassamento, non risultando più questa regione vitale per la sopravvivenza energetica delle economie avanzate.

Cerchiamo, per concludere, di riannodare i vari fili dei discorsi sin qui portati avanti e di azzardare alcune risposte alle domande che ci eravamo posti in sede introduttiva. Gli Stati Uniti si sganceranno veramente dai tradizionali alleati mediorientali? Questi ultimi, Arabia Saudita in testa, come reagiranno?

Sicuramente, alla luce di quanto esposto, il peso degli Stati del Golfo nei complessi equilibri mondiali è destinato a diminuire nel corso dei prossimi anni: l’apertura delle nuove rotte artiche, lo sfruttamento di nuovi giacimenti così come la diffusione della tecnologia del fracking faranno calare la dipendenza energetica delle economie avanzate nei confronti delle varie petromonarchie, le quali verosimilmente non potranno più contare sulle tradizionali entrate per gestire il fronte interno così come per tentare di influenzare quello esterno. Tale passaggio dovrà essere gestito da parte delle élite locali con particolare tatto tanto più che, venendo a mancare la loro “indispensabilità”, è plausibile che esse non godranno più del sostegno e dei rapporti privilegiati che erano solite intrattenere con i governanti occidentali, Washington su tutti. Particolarmente importante sarebbe poi che esse non si facessero prendere dal panico, ricercando a tutti i costi la sicurezza perduta nel “cappello nucleare” di qualche vicino, sia esso Israele od il Pakistan.

In definitiva le future mosse dei principali attori regionali saranno la diretta conseguenza delle decisioni prese  a Washington, chiamata nei prossimi anni a scelte responsabili: così come è fondamentale che all’eventuale (anzi, probabile) affrancamento dal punto di vista energetico non faccia seguito un repentino disimpegno militare dall’area, analogamente è auspicabile che la ritrovata “libertà d’azione” venga fattivamente usata per risolvere, in modo più distaccato ma nel contempo equidistante / equilibrato, le numerose questioni che da decenni minano la pace della regione.

* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)

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[1] In particolare ci riferiamo ad un suo recente articolo apparso in Italia su L’Opinione con traduzione di Angelita La Spada; vedi D. Pipes, Obama e l’Iran, i sauditi si irritano

[2] In verità da un pezzo oramai il feeling non è più quello di un tempo; la constatazione che 15 dei 19 terroristi che presero parte agli attacchi dell’11 Settembre provenivano proprio dall’Arabia Saudita può, in questo senso, essere presa come momento spartiacque.

[3] Un alleanza di più ampio respiro con Islamabad, per inciso, consentirebbe l’accerchiamento strategico dell’Iran.

[4] Paradossalmente nella penisola arabica (ma versante Mar Rosso) l’unico capo dello Stato a dover cedere il potere è stato Alì Saleh, presidente di quello Yemen che è, almeno formalmente, una repubblica.

[5] Vedi In Arabia Saudita il re promette 35 miliardi di aiuti per evitare le proteste del giorno della rabbia, oppure D. Kholaif, Kuwaitis’ Free Food Grant to Cost $818 Million, Kuna Report.

[6] Vedi I. Romano, Golfo Persico, dopo la primavera è l’ora del “consenso guidato”

[7] Il che, per alcuni analisti, sarebbe indice che l’ennesima bolla è in agguato. Vedi S. Filippetti, Dubai teme un’altra bolla immobiliare.

[8] Secondo presupposti diversi parrebbero sorgere le cosiddette King Abdullah Economic City, in Arabia Saudita; vedi, http://www.kaec.net/

[9] I dati OPEC confermano anche come gran parte delle riserve accertate di petrolio si trovino proprio nell’area; http://www.opec.org/opec_web/en/data_graphs/330.htm.

[10] Nell’ultimo anno il WTI è oscillato attorno ai 100 dollari al barile, con un minimo a 87,4 ed un massimo a 106,8. Fonte: Il Sole 24 Ore, http://finanza-mercati.ilsole24ore.com/quotazione-petrolio-brent-wti/.

[11] Va peraltro rimarcato come gli analisti non siano riusciti a trovare la ratio soggiacente a questi finanziamenti, dal momento che essi spesso contrastano con le politiche estere ufficiali; molti pertanto vi hanno visto un riflesso delle lotte di potere sotterranee che si svolgono all’interno delle varie tribù / clan regnanti.

[12] Alle operazioni belliche internazionali che hanno portato all’abbattimento del regime di Gheddafi hanno infatti partecipato velivoli militari del Qatar e dell’Oman.

[13] Prendiamo però atto che negli Stati Uniti siano sempre più numerose le voci che criticano l’impegno statunitense nell’area, denunciandone l’inutilità; vedi l’articolo di qualche anno fa del corrispondente del Time nonché vincitore del premio Pulitzer Mark Thompson, A Question For the Obama Administration: Has the U.S. Wasted $8 Trillion Defending the Flow of Oil from the Persian Gulf?. Sull’efficacia militare di uno strumento convenzionale come quello statunitense al cospetto della marina dei Pasdaran, chi scrive peraltro nutre più di un dubbio: di fronte alla tattica iraniana di attacchi con “sciami” di battelli l’obiettivo di tenere aperto lo stretto di Hormuz è infatti difficilmente conseguibile.

[14] Vedi S. Meky; E. El-Shenawi, The GCC’s future military command a ‘political signal,’ say experts. La contemporanea presenza, dietro le quinte, nel nuovo organismo militare unitamente ai benefici in termini d’immagine derivanti dal nuovo atteggiamento maggiormente equidistante, permetterebbe agli Stati Uniti di continuare a tenere entro certi limiti sotto controllo la regione in virtù di un rinnovato soft power. Una volta assicuratosi quest’ultimo si potrebbe veramente pensare ad un progressivo disimpegno militare.

Photo credit: AP Photo/Jacquelyn Martin, Pool, File

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