Oramai è un trend consolidato sulla stampa italiana: ad intervalli regolari, generalmente coincidenti con i periodi intercorrenti tra i report annuali delle varie corporations, fanno capolino tra le colonne dei giornali nostrani le notizie relative agli oneri fiscali sopportati dalle stesse e dalle loro filiali locali.
Qualche settimana fa è stato il turno di Vodafone, “rea” di aver sopportato un tax rate prossimo allo zero grazie agli ammortamenti degli investimenti in infrastrutture e banda larga. Un paio di giorni fa le pseudo-denunce giornalistiche nostrane, rinforzate questa volta dalla dimensione nazionale della vicenda e dal siparietto tra D&G e il Comune di Milano, hanno avuto come bersaglio la divisione italiana di Google.
I titoli osservati sulle varie testate erano più o meno dello stesso tenore: Google Italy ha versato al fisco italiano, nel 2012, “solo” 1,8 milioni di euro. Certo, molti penseranno a prima vista che si tratti di una cifra molto bassa, considerato il giro di affari di Google.
Tuttavia, per quanto i vari titoloni lasciassero presagire una qualche forma di evasione fiscale massiva o un aliquota di tassazione estremamente bassa, quegli stessi articoli volti a suscitare indignazione contro il Grande Capitale assetato di profitti che si rifiuta di assolvere ai propri Doveri nei confronti della collettività rivelavano una realtà dei fatti piuttosto diversa.
Questi i numeri riportati relativamente alla famigerata Google Italy nel 2012: 52 milioni di euro di fatturato, 2 milioni e mezzo di utili, un milione e ottocentomila euro di tasse versate. In altre parole, la divisione italiana di Google ha avuto nel 2012 un tax rate nientedimeno che del 72%. Nessuna persona in buonafede ovviamente penserebbe che una società che sopporta un carico fiscale così pesante stia evadendo il fisco (a meno che non si abbia a modello la Corea del Nord). Allora, a cosa mai faranno riferimento le nostre testate giornalistiche? Per provare a capirlo si deve fare un bel salto logico. A quanto pare, la quasi totalità dei proventi di Google Italy deriverebbe da servizi verso la sede centrale irlandese. Sede alla quale, appunto, farebbero riferimento i proventi pubblicitari europei.
La “colpa” di Google sarebbe quindi di utilizzare strumenti perfettamente legali per ridurre il carico fiscale complessivo (in Irlanda la corporate tax ha un’aliquota unica al 12,5%). In base a questa lettura, Google Italy ha pagato poco perché ha dichiarato poco avvalendosi di un’accurata pianificazione fiscale.
Ovviamente, nessuno degli autori di tali articoli sembra aver capito che, quando si parla di carico fiscale, “poco” o “tanto” si dovrebbe misurare in base all’aliquota effettivamente sopportata e non in base a quanto si ritiene che una società dovrebbe pagare in termini assoluti vista la sua dimensione.
Ovviamente, nessuno degli stessi autori ha provato a chiedersi se forse, visto il tax rate che Google Italy ha sostenuto nel 2012, il problema non stia nell’attitudine confiscatoria del fisco italiano e che, pertanto, sia perfettamente ragionevole che una società cerchi, con mezzi legali, di assoggettare quanto meno reddito possibile a un prelievo superiore ai due terzi dello stesso.
Ovviamente, solo in un paese completamente ammorbato da strepiti continui su “lotta all’evasione” e patrimoniali sulle grandi ricchezze un così grossolano esercizio di malafede poteva passare per chissà quale atto di coraggiosa denuncia sociale.
Nicolò De Salvo