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Da Ciro_pastore


ARBEIT MACHT FREI - Gruppo EAV: tra debiti, esuberi, armonizzazione degli stipendi e riorganizzazione Gruppo EAV: tra debiti, esuberi, armonizzazione degli stipendi e riorganizzazione

ARBEIT MACHT FREI Se si difende solo l’occupazione e non si crea lavoro produttivo, si finisce per perdere anche il “posto”

In maniera crudele e deridente, gli organizzatori dell’olocausto innalzarono all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz una macabra insegna:ARBEIT MACHT FREI(il lavoro rende liberi). Il motto doveva apparire, agli increduli deportati ebrei, come un’implicita promessa che la detenzione, mediante il duro lavoro, li avrebbe portati alla riconquista della libertà. La frase, quindi, scaturiva da quella vena di umorismo pesante, protervo, funereo, a cui i nazisti spesso facevano ricorso.Sappiamo bene, infatti, che l’intento degli aguzzini nazisti era quello di carpirne la credulità per meglio tenerli a bada, in attesa della “soluzione finale ”. Resta, però, tutta la forza evocativa di quella frase: Il lavoro rende liberi. Lavorare per l’umanità costituisce, ad un tempo, sia una “condanna” che un’occasione per conquistare identità sociale ed individuale. È una condanna perché la nostra biologia ci costringe, quanto meno, a procurarci il cibo indispensabile alla nostra sopravvivenza e, per far questo, siamo obbligati a compiere un “lavoro”. Anche se ci volessimo limitare a raccogliere i frutti della terra o del mare, in ogni caso dovremmo impegnarci fisicamente per ottenerli. D’altronde, un celeberrimo passo biblico recita “tu uomo lavorerai con il sudore della fronte” che, altro non è, che un’esplicita condanna ad un incessante obbligo di faticare per sopravvivere. Per millenni, il lavoro ha conservato la primigenia funzione di auto sostentamento individuale (al massimo familiare o tribale), tanto che il segnale del potere fu, fin da subito, possedere degli schiavi che svolgessero il lavoro per i pochi potenti che lo consideravano indegno, oltre che faticoso. Lavorare era un’attività considerata disdicevole per le elites aristocratiche dell’antichità. Tale è rimasta fondamentalmente la considerazione sociale fino alla Rivoluzione Industriale, anche se nel corso dei secoli era già venuta formandosi una classe di artigiani e piccoli commercianti che, attraverso il lavoro, provarono ad emanciparsi politicamente e socialmente. A partire dal diciannovesimo secolo, però, con l’affermarsi della borghesia (piccola o grande, non importa), il lavoro cominciò ad assumere i connotati che ci sono noti. Da semplice strumento di auto sostentamento alimentare, il lavoro acquisì ben presto una funzione identitaria per i singoli individui. Ma con il progredire dell’industrializzazione, si venne a perdere il rapporto fra il singolo lavoratore ed il risultato del suo lavoro. Se l’artigiano o il contadino continuarono ad essere homo faber(uomo che fa, costruisce), la grande massa dei lavoratori delle industrie divennero ben presto solo homo laborans(uomo che lavora). La differenza appare sottile ma, invece, è decisiva. Le grandi masse operaie (ma anche impiegatizie) si trasformarono, infatti, in pura e semplice forza-lavoro, al pari dei macchinari. Con lo sviluppo tecnologico, poi, la forza-lavoro è stata asservita ai macchinari, di cui devono assecondare tempi e modalità operative. E questo non vale solo per l’industria manifatturiera ma anche per il cosiddetto terziario. Anche nei servizi massificati (come il trasporto pubblico) il singolo lavoratore, qualsiasi sia il suo specifico apporto, è soltanto un componente intercambiabile di un ingranaggio organizzativo, in cui è il salario/stipendio ad aver assunto l’unica forza valoriale. Accade, così, che i lavoratori (o meglio ciò che ne resta) oggi siano interessati soltanto alla difesa dei livelli occupazionali e retributivi, in maniera sempre più svincolata dalla salvaguardia o dal potenziamento del lavoro,in quanto fenomeno realmente produttivo. Ho fatto questa lunga (e probabilmente noiosa premessa) per giungere a parlare di quanto accade nel Gruppo EAV riguardo alle politiche dell’organizzazione del lavoro nel suo complesso. Solo qualche giorno fa, come tutti saprete, si è giunti alla firma di un accordo che armonizza le retribuzioni delle tre aziende operative. Nel merito specifico, ritengo che il risultato finale sia positivo, quanto meno per buona parte delle qualifiche aziendali, ma solo se lo si esamina sotto il profilo strettamente economico. In un momento di scarsità di risorse, in cui in altre realtà dello stesso settore si fatica a conservare la retribuzione e l’occupazione, questo accordo in definitiva tutela ampiamente i livelli retributivi e non penalizza eccessivamente le aspettative per il futuro. Il vero problema, però, è che aver stabilizzato ed armonizzato le retribuzioni, non ci pone assolutamente al riparo da tutti gli altri pericoli incombenti che restano uno spettro per nulla scongiurato. Non mi riferisco solo alle evidenti difficoltà economiche-finanziarie (che l’anno prossimo saranno acuite dall’applicazione del Decreto sulla Spending Review) e che producono incertezza sulla stessa liquidazione degli stipendi così armonizzati. Mi riferisco, soprattutto, all’inevitabile e prossima applicazione del contratto di solidarietà che riguarderà le cosiddette categorie in esubero (amministrativi in primis). Applicare il contratto di solidarietà, infatti, è un’occasione troppo ghiotta per il management aziendale di recuperare altri fondi utili al sostentamento delle aziende operative. Come saprete la perdita secca dei lavoratori non sarà di grande entità, visto che a fronte di una consistente riduzione dell’orario di lavoro quotidiano, il decremento retributivo è quantificabile intorno al 10%. Ovviamente, per tutti quelli che sono abituati da decenni allo straordinario “fisso e continuativo ” la batosta sarà nettamente più dura. Ma per costoro si apre addirittura la possibilità di essere “sfilati” dalla lista degli esuberi, visto che sarebbe difficile considerarli tali dopo che da sempre gli vengono richieste prestazioni straordinarie: sarebbe come ammettere che lo straordinario finora svolto era un “gentile omaggio” aziendale. Come avrete capito, la pur giustificata lotta per il mantenimento dei livelli occupazionali e retributivi, se è disancorata da un ridisegno organizzativo complessivo, determina un ulteriore implicito svilimento del lavoro, inteso come “promozione di sé” che viene così a diluirsi in un’insignificante sistema che riduce la produttività a mero stipendificio. Invece, occorre pensare a diverse e più moderne forme del nostro modello di business che restituiscano centralità alla produzione del servizio, creando reale valore economico per il territorio servito. Limitarsi a tenere in vitaqueste aziende senza adattarne la funzione economico-sociale alle mutate esigenze della clientela equivale, nel lungo periodo, a decretarne l’inevitabile sostanzioso ridimensionamento. È il lavoro nella sua accezione di produttività che va difeso. Difendere l’occupazione e le retribuzioni attuali è solo una parte della strategia necessaria. Emblematico è l’esempio di quanto sta accadendo da anni in FIAT. Tagli, newco, aumento di produttività individuale, a nulla servono se poi non si progettano modelli al passo con le richieste del mercato. Il finale è sempre lo stesso: la chiusura delle fabbriche. Se noi nel trasporto pubblico non ci prepariamo ad intercettare le mutate esigenze della clientela, se non poniamo al centro della nostra azione l’aumento dei servizi e la loro migliore organizzazione, se non eleviamo gli standard qualitativi, saremo come la FIAT che tenta di vendere auto progettualmente vecchie che restano miseramente invendute nelle concessionarie. Ciro Pastore Il Signore degli Agnelli   http://golf-gentlemenonlyladiesforbidden.blogspot.com/


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