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Hamas-Israele: il principio di deterrenza passa nelle mani della resistenza palestinese

Creato il 06 dicembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Elisa Gennaro

Hamas-Israele: il principio di deterrenza passa nelle mani della resistenza palestinese
L’ultima operazione militare contro la Striscia di Gaza denominata da Israele “Pilastro di Difesa” è stata molto discussa sin dalle prime ore in cui è stata preannunciata dai leader dello Stato ebraico. Analisti politici, stampa, attivisti e difensori dei diritti umani, tutti hanno temuto che potesse ripetersi la guerra Piombo Fuso (2008 – 2009). Nonostante il 12 novembre fosse stato istituto, grazie alla mediazione egiziana, un coprifuoco dopo l’uccisione di adolescenti palestinesi e il ferimento di quattro soldati israeliani al confine con Gaza, l’assassinio di Ahmad al-Ja’bari, leader delle brigate ‘Izz ad-Din al-Qassam, eseguito due giorni dopo, ha svelato come Israele fosse intenzionato a seguire un’altra agenda.

Al-Ja’bari, infatti, non era solo il leader palestinese votato alla resistenza, ma era soprattutto l’uomo che si era impegnato personalmente all’implementazione e al rispetto di quella tregua. Superando qualunque linea rossa nel corso delle proprie quotidiane operazioni al confine con Gaza, optando per una vasta operazione militare nel mezzo di una tregua, Israele non ha fatto altro che lanciare una provocazione che in diritto internazionale equivale ad un casus belli.

In casa, le condizioni per attaccare c’erano tutte anche questa volta. E’ vero che il Premier israeliano Benjamin Netanyahu sperava nella vittoria del candidato repubblicano alle presidenziali statunitensi, ma le aspettative di Israele state comunque accolte quando il 7 novembre si è riconfermato Barack Obama. D’altra parte, nessun’amministrazione americana ha mai osato sfidare la lobby israeliana nel mezzo di una campagna elettorale e, anche questa volta, sollevando un presunto diritto all’autodifesa, i leader israeliani hanno incontrato il favore degli USA che, nei primissimi giorni dell’operazione militare hanno espresso il proprio supporto. Obama l’ha dichiarato pubblicamente e il Congresso ha approvato due risoluzioni per affermare questo principio.

Nel corso di una settimana di violenza, 170 palestinesi hanno perso la vita, diverse centinaia sono rimaste ferite, i danni materiali non si contano, il compound del Ministero dell’Interno è stato raso al suolo. In Israele tre persone hanno perso la vita perché raggiunti dai razzi della resistenza di Gaza. I dati della distruzione e dei traumi diffusi ovunque dimostrano come Gaza sia per Israele un laboratorio nel quale testare armi altamente sofisticate – magari per aumentarne le vendite – e dove mettere alla prova le aspettative politiche e militari, a volte anche molto personali. Non è la prima volta in cui una guerra contro i Palestinesi si rende necessaria per sondare il terreno a poche settimane dalla campagna elettorale in Israele; si pensi alla guerra contro il Libano mossa da Peres nel 1996 o alla più recente Piombo Fuso cercata dall’alleanza tra Livni e Olmert.

Se altrove, nei Territori palestinesi occupati, il piano coloniale israeliano si manifesta con colonie e carri armati come avviene in Cisgiordania, o con la negazione dei diritti sociali e fondamentali come quello alla casa a Gerusalemme e in Israele, la Striscia di Gaza è il luogo in cui si scatena il massimo della forza militare.

Hamas-Israele: il principio di deterrenza passa nelle mani della resistenza palestinese

Striscia di Gaza. Fonte: BBC

Nel contesto da noi preso in esame, il principio della proporzionalità viene meno poiché esiste la consapevolezza che, aggredendo una specifica area, la probabilità di colpire indiscriminatamente la popolazione civile è altissima. Un uso esteso del proprio arsenale industriale bellico non potrà risparmiare i civili a Gaza e, sotto un profilo penalistico, intenzione e accanimento sono due elementi da non trascurare. La logica è quella del colonizzatore che mira alla conquista di tutta la terra, svuotandola prima della popolazione che su di essa vive. Si pensi alle recenti rivelazioni secondo cui, alti vertici politici israeliani avevano imposto un tetto di calorie nell’alimentazione della popolazione palestinese di Gaza. Inoltre, per mezzo del ricorso illimitato del potenziale militare (per rispondere o provocare una risposta militare della resistenza palestinese pur sempre limitata), viene meno anche quel diritto residuale di muovere guerra che in via di principio, e previo il rispetto di precise procedure, uno Stato potrebbe rivendicare.

L’ultimo ciclo di violenza, tuttavia, ha presentato alcune caratteristiche nuove. L’attenzione dei più è andata alla capacità di risposta dimostrata dalla resistenza palestinese, rinnovata in quanto a superiorità, ma soprattutto per gli effetti politici da essa derivati. Guidata dall’azione delle brigate al-Qassam (Hamas) e al-Quds (Jihad Islamico), in sede di trattative per la tregua, la resistenza ha dimostrato di avere le idee chiare su come utilizzare il principio della deterrenza.

Nel rispondere a “Pilastro di Difesa”, Hamas ha mosso contro Israele Pietre d’Argilla; senza aver abbandonato i rudimentali razzi Qassam, artigianalmente costruiti in casa con materiale di uso comune e in grado di raggiungere dai 5 ai 13km di distanza, la resistenza ha fatto mostra dei più potenti Fajr-5 che hanno raggiunto la periferia di Tel Aviv e un sobborgo di Gerusalemme. Di produzione iraniana, con tutta probabilità arrivati a Gaza dal Sudan, restano i dubbi sul perché il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano abbia respinto il ringraziamento all’Iran espresso dal Premier di Gaza il giorno dopo la firma della tregua.

Ciò che importa in questa sede è capire come la nuova capacità di risposta della resistenza abbia leso la strategia militare israeliana in maniera diretta e collateralmente. Il raggio d’azione di questi missili ha raggiunto i 75km da Gaza tanto da aver costretto Israele a modificare all’ultimo momento il software del sistema Iron Dome. Le batterie antimissile, ciascuna della quali parte da un costo di 40milioni di dollari sono di esclusiva produzione israeliana. La compagnia Rafael fabbrica missili da 90kg ciascuno e la Elta provvede ai radar. Si tratta di investimenti resi possibili grazie ai finanziamenti statunitensi e solo quest’anno Obama ha finanziato la produzione di Iron Dome per 70milioni di dollari, mentre sono attesi 250milioni di dollari perché Israele produca altre otto batterie che andranno ad aggiungersi alle cinque di cui lo Stato ebraico è attualmente dotato.

Hamas-Israele: il principio di deterrenza passa nelle mani della resistenza palestinese

Funzionamento del sistema anti-missile Iron Dome. Fonte: Rafael-Advanced Defense Systems

Il ricorso ad Iron Dome ha inoltre paralizzato l’utilizzo dell’artiglieria pesante da terra, necessaria per fornire copertura a un’invasione terrestre che effettivamente non ha più avuto luogo. Neutralizzata la possibilità di attivare i militari sul fronte terrestre e compromesso il tragitto dell’Aviazione perché pericolosamente esposto ad Iron Dome, Israele si è dovuto guardare bene dal proseguire questa guerra senza obiettivi ben definiti, e soprattutto dal ripetere uccisioni di massa indiscriminate come fu con Piombo Fuso.

Affianco alla novità rappresentata dalla nuova categoria di missili, Hamas questa volta ha svolto anche attività di Intelligence per monitorare preventivamente l’azione israeliana e per colpire l’avversario con maggiore precisione. Ciò è stato possibile grazie ad aerei spia, e la notizia del loro utilizzo ha trovato conferma nelle parole del leader politico all’estero, Musa Abu Marzuq. Israele ha ammesso di averne captati alcuni senza tuttavia riuscire ad abbatterli.

La trasformazione dello scontro si è realizzata nel messaggio che i Palestinesi, raggiungendo le loro città d’origine, hanno fatto pervenire al cuore del conflitto: la terra. Da Tel Aviv e Gerusalemme, quello stesso messaggio è stato ribadito in sede di trattative per la tregua al Cairo quando la leadership ha informato Israele che “non potrà considerarsi la parte forte e l’unica a decidere quando una violenza può avere inizio e quando finire e, soprattutto, che Gaza non è un banco di prova per le esigenze interne ad Israele”.

In Egitto, la leadership della resistenza palestinese ha posto precise condizioni a Israele per una non ingerenza nelle relazioni tra Egitto e Gaza e per un alleviamento dell’assedio su Gaza; già violato da Israele nelle ore successive alla sigla dell’intesa con pescatori aggrediti, ragazzini feriti, altre vittime, incursioni e scorrazzamenti nei cieli di Gaza. Anziché fare un’analisi e procedere per via negoziale sin dalle prime ore dello scontro, entrambe le parti hanno tentato di moralizzare le proprie singole azioni politico-militari.

Lo spostamento dell’indice della bilancia di forza registrato in quest’occasione è stato il risultato di una serie di cause. L’indifferenza israeliana per i principi che muovono guerra ha svelato il declino morale delle politiche perseguite e della strategia militare, mentre il nuovo clima regionale ha fatto si che il governo di Gaza e la resistenza palestinese potessero fare affidamento sulla parentela con la classe dirigente in ascesa legata alla Fratellanza Musulmana.

Non incompatibili, le distinte alleanze strette dalle due leadership, quella a Gaza e quella all’estero, hanno fatto in modo che Hamas venisse accolto a pieno titolo nel campo di policy decision-making. Qatar e Turchia si impegnano in prima linea, sebbene in termini di assistenza umanitaria, e dal Qatar la leadership politica deve mantenere in vita il traballante equilibro con il blocco Siria-Iran.

Deve corrispondere a questo duplice canale di relazioni con l’esterno la performance rilasciata al governo di Gaza e alla resistenza: condurre una buona azione di governo diretta allo sviluppo e mantenere l’adesione incondizionata per la causa di resistenza e di liberazione.

Prima ancora di aspettarsi che la resistenza palestinese sia in grado di dotarsi di armi di sempre superiore capacità, la sfida maggiore resta quella in campo politico nel gioco delle alleanze regionali. Bisogna costantemente assicurarsi che la causa di liberazione non sia snaturata o strumentalizzata dalla dialettica interna ai Paesi arabi, è necessario monitorare e contenere eventuali insorgenze di gruppi interni che, sottraendosi alla leadership di Hamas, facciano saltare una tregua sempre incerta. Soprattutto bisogna comprendere come tutto ciò non escluda mai una relazione con l’occupante.

* Elisa Gennaro è giornalista pubblicista e Dottoressa in Lingue e Civiltà Orientali (Università “La Sapienza”)


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