Forse la critica letteraria non sarà il modo più diretto e sicuro per accertare le qualità umane di chi la critica la esercita, però mi hanno sempre fatto meditare gli strani e improvvisi movimenti che la morte di un autore produce sui giudizi che lo riguardano. Accelerazioni e scarti che, mi sa, poco hanno a che vedere con i tempi dello studio e del ragionamento, e molto invece con i vizi e le virtù che ci appartengono.Prendete Alberto Moravia, per esempio. Leggo sulla Nuova Antologia - un articolo a firma di Gennaro Cesaro - che la salma di Ernest Hemingway era ancora calda, dopo il suicidio del 2 luglio 1961, che lo scrittore romano ne decretò la morte anche letteraria. Lo fece su L'Espresso, titolo già più che eloquente: Hemingway: niente e così sia.
Vaticinava in questo modo, Alberto Moravia, a proposito del grande Hem e di miti analoghi:
Essi sono fatti per le masse e le masse li dimenticano appena ne sorgano degli altri più moderni e più seducenti
La cosa che colpisce, naturalmente, è che parole così chiare e crude siano state pronunciate solo post mortem. Non mi ricordo bene, però mi pare che Moravia non fosse nuovo a cose del genere.
Cinque anni dopo la sua morte, intendo la morte di Moravia, lo stesso settimanale uscì con questo titolo: Moravia, chi era costui?
Hem, nel frattempo, se la cava piuttosto bene. Legge del contrappasso o semplicemente umano, troppo umano?





