I Caplèt, un racconto e un libro per amore.
La porta si aprì, nella nebbia dell’alba. Le donne arrivavano alla spicciolata, tirandosi sul capo gli scialli, ombre scure nel primo chiarore. Bisbigliavano, entrando nella cucina calda, per non svegliare i burdél, che dormivano nella stanza di sopra.
A’t saludi, Leonilde.
A’t saludi, Fedalma.
Entravano in fretta, battendo gli zoccoli sulla soglia e sfrullavano davanti al fuoco, scuotendo mantelle e scialli come piume di gallina. Posavano sul grande tavolo vassoi e fagotti, accettando bicchieri di vino o latte caldo. La Leonilde le richiamò all’ordine, battendo le mani. Sciamarono attorno al tavolo, le gote arrossate dal fuoco e dal vino: farina a pioggia, e zucchero bianco, pani di burro e profumo di vaniglia, ciotole d’uova e braccia robuste a impastare.
Vai di là, te, Aida, va a pensare al Vilmer e lasciaci lavorare, che te non devi mica star qui dattorno quand’is fan i zucarein ridevano le donne, scacciando la sposa con le mani appiccicose e i grembiuli infarinati. Il sole riempiva il giorno e impolverava di luce la cucina affollata: i burdél erano sciamati fuori, sospinti da baci e manarsvers. Sul tavolo si allineavano gli anelli bianchi degli zucarein appena sfornati, che le bambine cospargevano di zucchero a velo e riponevano nelle ceste di vimini, foderate di bianchi lini ricamati.
Aida sbirciava, dall’uscio: li avrebbe portati in giro per le aie, alle famiglie amiche, per invitarle al matrimonio. Un attimo di sgomento, di ansia, un frullo allo stomaco, poi un sorriso. Entrò, levando gli zoccoli con cui era andata nella stalla. Si lavò le mani all’acquaio. Era ora di preparare i caplèt per il pranzo dell’indomani. L’indomani. Il Vilmer. Arrossì e si piegò sulla tavola infarinata, a nascondere un sorriso.
La ricetta, come le belle mani che vedete nelle foto, è dell’altra amica romagnola, Silvia. A lei grazie per tutto, per i sorrisi, i rimbrotti, gli insegnamenti, per il fuoco nel camino, per le lacrime, la pizza, la madre, una pashmina colorata, per un ballo a piedi scalzi su tappeti marocchini, per aver tentato, se pure invano, di farmi correre al mattino su e giù per le crose di questa mia città in salita.
I Caplèt
(i cappelletti romagnoli)
per il ripieno (batù):
550 grammi di parmigiano stagionato.
una noce moscata.
150 grammi di mortadella in una sola fetta.
2 uova grandi.
pizzico di sale.
Per la sfoglia:
5 uova
500g di farina
Tritare la mortadella, amalgamare tutti gli ingredienti e mettere l’impasto in frigorifero fino al giorno dopo. Preparare una sfoglia, impastando prima tre uova con 300 g di farina e poi le ultime 2 uova con i restanti 200 g di farina (perché 5 alla volta son troppe). Tagliare la sfoglia in quadrati di ca 4 cm per lato.
Disporre un poco di battuto al centro di ogni quadratino.
Ripiegare il quadratino a triangolo, chiudendo bene i bordi.
Avvolgere il triangolino sul dito indice della mano sinistra e fermare gli angoli, premendo bene sulla congiunzione.
Raccoglierli in file ben ordinate.
Lessarli in brodo caldo, possibilmente di cappone o di pollo e carne.
Il raccontino che avete letto lassù è invece uno dei tre piccoli racconti, corredati da ricette, che ho scritto per un libro molto bello e molto importante.
Il libro si chiama Ti regalo una ricetta, è stato scritto da molte mani e curato da Stefania Acquaro: raccoglie racconti, esperienze e tante ricette, nell’ottica di un cibo inteso come momento di convivialità e affetto, come dono appunto
Tutti i proventi ricavati dalla vendita del libro saranno devoluti all’associazione “Mi Nutro Di Vita” per finanziare progetti di prevenzione ai disturbi alimentari.
Potete acquistare il libro sulla pagina dell’editore Liberodiscrivere
p.s. i caplèt non ci sono, nel libro, ma ci sono altre 3 mie ricette. Quali? Beh, per saperlo non vi resta che andare a comprarlo!!
p.p.s. Per la ricetta bastarda, di cui vi parlavo l’altro giorno, tornate. Sarà la prossima, domani o dopodomani..