I giganti della montagna
Creato il 29 agosto 2013 da Giuseppeg
Sarà per le esigenze
di spettacolarizzazione - piuttosto ovvie -, sarà perché l’episodio si
ricollega in qualche modo a un certo passo della vecchia trilogia - vi
ricordate la valanga ne Il Signore degli Anelli? -, fatto sta che i giganti di
pietra hanno trovato ne Lo Hobbit
molto più spazio di quello che l’autore aveva loro dedicato nel suo
libro, in cui li aveva congedati in poche righe. E fu un peccato, veramente:
quella bella allegoria che interpretava una tempesta di montagna come uno
scontro fra titani aveva un fascino particolare ed esprimeva molto bene il
sentimento di terrore e di impotenza che si prova quando ci si trova coinvolti
in qualcosa di enormemente più grande di noi. Perché di questo si tratta:
la natura della Terra di Mezzo, e nella fattispecie quella delle
Montagne Nebbiose, non fa parte in nessun modo della storia dell’Anello. Essa è
infinitamente più antica e ha preceduto ogni leggenda conosciuta. Vi sono
elementi, nell’universo di Tolkien, che pur non facendo integralmente parte del
racconto principale vi si inseriscono ugualmente, moltiplicando all'infinito in
questo modo i vari piani narrativi, in un rimando sempre continuo di storie e
di eventi. Ora, dire che questo sia voluto anche nel film è dire forse troppo.
Ciononostante, l’effetto è grosso modo lo stesso, e anche la
scelta delle immagini è di aiuto in questo senso.
L’indeterminatezza in cui
sono tenuti i giganti, la piccolezza infinita dei Nani e dell’Hobbit al loro
confronto, l’indifferenza di quei colossi di pietra verso qualunque altra forma
di vita che non fosse la loro: tutto ciò rende benissimo l’idea di una
grandezza smisurata, di un’immensa forza cieca che appartiene alla natura, e
non soltanto della Terra di Mezzo. È il sublime come lo intendeva Burke: la percezione assoluta di
una distanza incolmabile tra il soggetto e l’oggetto, un ‘orrore che affascina’
proprio perché smisurato e imponderabile. “Ci sono altre forze che agiscono in questo mondo, a parte la volontà
del Male. Alcune sono più forti di me, e contro altre non sono ancora stato
messo alla prova”: così parlava Gandalf, in una scena de La compagnia dell'Anello. Alla natura
non importa dell’Anello, non importa della guerra o del destino degli uomini.
Cosa sarebbe successo se Bilbo fosse caduto in un crepaccio? Se non avesse
trovato l’Anello, se non lo avessero un giorno distrutto? L’intera storia
avrebbe avuto un altro corso, certamente; ma alcune cose non sarebbero
cambiate. Sono troppi, infatti, gli elementi in gioco, sono troppe le varianti.
È in questa indeterminatezza, in questa continua possibilità di scacco che
risiede il vero senso della storia, la sua ampiezza e la sua universalità. È il
mondo vivo e pulsante di Tolkien, il suo più autentico capolavoro.
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