Anna Lombroso per il Simplicissimus
Il giulivo Tg 3 l’ha rifatto: “Venezia: turisti in festa, anche oggi si è verificato il suggestivo fenomeno dell’acqua alta”. Ci ricascano prima o poi. Il lento inarrestabile affondamento della Serenissima, come una rappresaglia tardiva per la sua maestà, esercita l’incanto perverso di un effetto speciale per turisti e per guardoni globali, come se il declino anfibio rappresentasse un’attesa apoteosi.
Eppure questa Venezia che digrada piano nell’acqua, contraddice il suo codice genetico di macchina instancabile di difesa e di sviluppo, di operoso sistema costruttivo: barriera e ricetto dalle onde, guardiania contro i corsari, poderosa fortezza senza mura, difensiva e offensiva nel suo sogno di grandezza. Ha dimenticato la sua vocazione instancabile a creare barriere e al contemporaneamente a edificare un tessuto cittadino solido sulla più mobile delle strutture di sostegno. Come un motore che non conosce fatica, governava maree e correnti, innalzava difese contro le alluvioni dovute all’intreccio dei fiumi alpestri e alle ondate tumultuose e impetuose spinte dalle correnti litorali del fondi del golfo adriatico. E intanto bonificava, gestiva e impiegava a buon fine fenomeni di emersione, interramento e riempimento che colmavano le parti morte dell’ambiente marino, rinforzando isole e lidi, impedendo che la terraferma divorasse la laguna, mentre intanto dava vita all’organismo vivo della città, su pali conficcati nella melma giù fino in fondo, in un attivismo convulso ma razionale, lungimirante e potente.
Niente è rimasto di quella capacità di previsione e di quella potenza demiurgica, nella sonnolenta città di oggi invasa da orde di barbari e continuamente allagata. Niente resta del dinamismo espresso imprevedibilmente da quelle popolazioni descritte da Cassiodoro come in un affresco: un paesaggio immenso e povero, pianure liquide le chiama Mommsen, fatte di saline e barene, acquitrini e case costruite come nidi di uccelli acquatici. E nelle quali vorrebbe ricollocarla la folla di spettatori del monitor del villaggio globale, che da un lato ne ha fatto una proprietà sentimentale, culturale, onirica di tutti, e dall’altra la trasforma in un non-luogo o in un luogo comune, tanto trattato, descritto, filmato, dipinto, cantato da farne una città immateriale, stranota anche se mai visitata, un dèja vu che non sa vivere al di là dell’immaginario.
Sono i fenomeni dell’irradiazione del mito di Venezia che la espongono alla conversione da locus amoenus a locus melancholicus, popolato di fantasmi e demoni, percorso da anticipazioni di catastrofi imminenti e globali, prodotto in vendita nell’outlet della nostalgia, da visitare e consumare frettolosamente, prima del definitivo sprofondamento, del quale l’acqua alta, suggestivo fenomeno, diventa un annuncio, uno spot commerciale, il trailer di un colossal del filone catastrofista.
Pare che nessuno voglia più salvarla Venezia, ritirati nell’ombra i Council, le Fondazioni, l’Unesco, le Accademie. È caduto il silenzio, spezzato da un’attenzione intermittente che guarda solo ai fenomeni e non alla continuità di un oltraggio perseverante e perverso.
Si accendono i riflettori sul Ponte di Calatrava, ma si tace sul seguito: dopo una storia infinita di costi ballerini (lievitati da 2 a 23 milioni di euro), di varianti in corso d’opera, di costosissime manutenzioni, il quarto ponte sul Canal Grande è diventato il passaporto per altri intrusi seriali nel cuore di Venezia: a cominciare da uno spudorato alberghetto in vetro, ferro e cemento, a un passo dal ponte. E come se non bastasse, un garage a due piani, sotterraneo, scavato dopo un contenzioso durato cinquant’anni, che il proprietario dell’albergo ha ottenuto il permesso di edificare in cambio della munifica cessione di una piccola area verde, alla base del ponte.
Il celebrato ponte del celebrato architetto si è rivelato un prodotto apolide che potrebbe stare a Brasilia o a Shanghai, ma decisamente inadatto alla città. Al punto che la Corte dei Conti ha chiesto a Calatrava e ai responsabili del progetto 3,4 milioni di danni «in quanto l’opera è affetta da una patologia cronica caratterizzata dalla necessità di un costante monitoraggio e dal continuo ricorso a interventi non riconducibili alla ordinaria manutenzione».
E aiuta ad affermarsi la convinzione aberrante che una firma prestigiosa basti a giustificare qualsiasi irruzione di elementi nuovi nelle città storiche. Così Benetton ricorre a un grande architetto, Rem Koolhaas, per legittimare un’operazione speculativa sul cinquecentesco Fondaco dei Tedeschi, Cardin interrompe lo skyline col suo mausoleo, una torre da far invidia agli incubi di immortalità degli sceicchi.
Quella che Le Corbusier ha chiamato il più prodigioso avvenimento urbanistico esistente sulla terra, diventa il banco di prova di una missione spericolata: privati rapaci con la correità di amministratori infedeli, mandano avanti a aprire la strada il progetto di una qualche star, e se si riesce a imporlo in barba alla storia, all’ambiente, al tessuto urbano e alle leggi, qualsiasi architetto, meno celebre, meno autorevole e meno caro, e qualsiasi amministrazione potranno disseminare le città dei loro “legittimi” obbrobri.
Non c’è da stare tranquilli, perché l’oltraggio perpetrato nella città più speciale, famosa e vulnerabile, si potrà replicare sfrontatamente altrove.
A Venezia, dove non si realizzarono i progetti di Kahn, di Wright, di Le Corbusier si sperimenta la propagazione dell’offesa ai centri storici, all’identità urbana, alla bellezza, tramite pacchiani prodotti di una malintesa modernità perentoria, screanzata e volgare: l’intrusione dell’albergo di Piazzale Roma, il primo edificio nuovo sulle sponde del Canal Grande da un secolo a questa parte, il cui progettista è tal Antonio Gatto, membro della Commissione di Salvaguardia in rappresentanza del Comune; o la torre Lumière del “couturier” francese, paragonato da Zaia a Lorenzo il Magnifico; o il progetto di trasformazione del Fondaco dei Tedeschi, con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili; o la speculazione del Quadrante di Tessera (due milioni di metri cubi di costruzioni) e della relativa metropolitana sublagunare.
E aggiungiamo – perché parte integrante della festosa cancellazione di lacci e laccioli, ostacolo alla libera iniziativa perseguita dalle giunte che si sono susseguite in atmosfera ecumenica e bipartisan – il passaggio delle navi da 40.000 tonnellate che sfiorano Palazzo Ducale e San Giorgio; Ca’ Corner della Regina svenduta a Prada: per dare al Comune una boccata d’ossigeno che vale 40 milioni; lo scempio del Lido, snaturato a favore dei palazzinari e del turismo internazionale d’altissimo bordo, col taglio della storica pineta dove passeggiavano i divi, l’avviata trasformazione del Forte Malamocco (pur vincolato dalla Soprintendenza) in un villaggio turistico, lo scavo — nei pressi dell’attuale Palazzo del Cinema — di un fosso destinato alle fondamenta di un nuovo Palacinema progettato nel 2004 e destinato a non sorgere mai, l’abbattimento dell’Ospedale al Mare (che doveva conservare alcuni padiglioni essenziali per i cittadini, e diventerà invece un centro commerciale e di appartamenti turistici) e la creazione di una gigantesca darsena artificiale per gli yacht là dove oggi sorge la spiaggia libera di San Nicoletto.
E che dire della concessione al Consorzio Venezia Nuova di un’ulteriore cospicua porzione del complesso demaniale dell’Arsenale, da decenni promessa al Comune? E cosa aggiungere alla espropriazione disinvolta e per fortuna temporanea di due tele della Scuola di San Rocco “prestate” alla mostra di Tintoretto curata da Sgarbi mutilando uno dei complessi figurativi più straordinari della città, affronto simbolico della mercificazione accettata ormai come ineluttabile in cambio di una pulitura delle opere, “gentilmente offerta” dagli sponsor?.
Si, bisogna vigilare. Pare che i poteri forti abbiano intrapreso una guerra contro la bellezza, per profanarla, offenderla, per poi liquidarla a poco prezzo. Questa guerra parte da Venezia, ma minaccia tutto questo Paese magnifico e fragile, le città grandi e piccole e quella “cittadinanza”, fatta di appartenenza, memorie, racconti familiari e epopee, incontri e immagini, quel ragionare insieme ormai dimenticato nel vociare becero del profitto.