Magazine Diario personale
La prova indubitabile che l’uomo si lasci corrodere l’anima dalla malinconia, è il costume di appropriarsi degli astri e di cantare languendo la bellezza dei propri. La stessa pessima consuetudine investe gli Dei, che difatti, nell’antichità,coincidevano con gli astri. Tuttavia, la personalizzazione moderna di Dio mi risulta più digeribile; Dio non è visibile e non urla ai quattro venti il proprio sentire, per cui le rappresentazioni della divinità variano di cultura in cultura, dandoci almeno l’illusione d’avere riservato un nume. Gli astri son quelli, purtroppo. Siano essi masse ignee turbinanti o costituiti di fredda roccia, sono i medesimi che illuminano e picchiettano i cieli, benché gli emisferi presentino delle differenze. Ciò nonostante secondo certuni, il sole migliore è quello dei propri luoghi; dello stesso campanilismo gode la luna. In certi casi, la superiorità è innegabile; per esempio, quando per un gustoso effetto ottico, il sole appare molto più grande di quanto non sia, all’orizzonte, oppure quando precipita nel mare rapidissimo, gettando le terre equatoriali nel buio, con impressionante rapidità, come se cedesse il giunto che – dalla Genesi - tiene l’astro agganciato al meccanismo del sistema solare, null’altro che una gigantesca sfera armillare progettata e realizzata dal Demiurgo, che seguì un ovvio principio di Necessità. Sublime, il più sublime, è quel sole che genera il mitico raggio verde, visto da pochi europei; Rohmer forse lo vide, ma non ce lo mostrò. Tali giudizi sono viscerali, pertanto comprensibili, non ugualmente condivisibili, basti pensare al sole di Napoli, che splenderà anche successivamente alla fine del sistema solare. Il sole del quale ci si fa vanto, non brucia. I pescatori dai volti arati e cotti, i contadini arricciati su sé stessi come foglie secche, assumono tali fogge per le fatiche del loro duro lavoro. Lo star ricurvi, il sale che circonda e penetra; queste sono le cause dell’invecchiamento, il proprio sole è foriero di Vita, e lo è persino l’astro dei luoghi più tristi. Il sole dei caselli autostradali, diafano e disgustato alle porte delle città, che strizza gli occhi per gettare uno sguardo attraverso la coltre urticante di smog, è ricordato con nostalgia dai vecchi casellanti. Penso che un vecchio indù possa languire al pensiero del sole di Calcutta, laddove – in realtà – l’astro dovrebbe sostare poco, fosse avveduto, evitando di scaldare l’atmosfera già velenosa, racchiusa sotto la cappa grigia che cinge la città. La luna gode delle stesse attenzioni. E’ rossa, rosa, gialla, perlacea, abbacinante, non per sua proprietà contingente, ma in quanto “nostra” e quindi caratteristica. Per il caro Caetano Veloso, la luna de Sao Jorge è azzurra verdeggiante, è coda di pavone, ma il verde manca nello slavato arcobaleno lunare. La luna di Istanbul è stanziale, come la metafisica, non si prende mai riposo. Cala dietro l’orizzonte, ma il suo giaciglio è sempre allo stesso indirizzo. La propria luna, come il sole, non può nuocere. Le maree solide, che premono il cervello contro la scatola cranica, quando la fase è piena, non sono mai state misurate, se non per i continenti. Io ed una mia storica compagna, anni fa, osservando la luna a centinaia di chilometri di distanza, col mare a separarci, spietato e consustanziale allo spazio, sentimmo entrambi un brivido correrci lungo la colonna vertebrale, dall’atlante alla punta del coccige, come se la forza Kundalini tornasse a dormire, senza averne mai avvertito il risveglio, peraltro. Sembrò che i nostri sguardi rimbalzassero sul pianeta, raggiungendo l’altro, lontano. Sospettammo, allora, che la luna fosse la stessa.
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