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I novant’anni dell’omicidio Matteotti e quella volta che Sandro Pertini beffò il regime fascista
Creato il 09 giugno 2014 da Domenico11Il governo attraversa una grave crisi politica e sembra sul punto di crollare sotto il peso della reazione dell’opinione pubblica. Gli errori tattici delle forze di opposizione, che si ritirano nell’Aventino e attendono invano una mossa del re Vittorio Emanuele III consentono però a Mussolini di superare il difficile momento e imprimere addirittura un ulteriore giro di vite alla già traballante vita democratica del Paese. Il 3 gennaio 1925 il fondatore del fascismo pronuncia infatti il discorso che segna il passaggio dalla democrazia liberale alla dittatura e assume in prima persona “la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”. Tra il 1925 e il 1926 vengono approvate le leggi “fascistissime”: definizione delle attribuzioni e delle prerogative del “capo del governo”, non più “presidente del consiglio”, né primus inter pares; abolizione della libertà di stampa e del diritto allo sciopero; scioglimento delle opposizioni politiche e dei sindacati; controllo di polizia su tutte le associazioni; istituzione del confino politico e del Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato; abolizione delle rappresentanze elettive dei comuni e introduzione del podestà; pena di morte. Il governo diventa regime. Nel 1928 il processo viene perfezionato con la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo, l’abolizione del Consiglio e della Deputazione provinciale, l’introduzione del plebiscito (nel 1939 ci sarebbe stata la definitiva abolizione dei “ludi cartacei” e l’istituzione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni). Infine, nel 1938, la vergogna delle leggi razziali.
In vista del primo anniversario dell’omicidio Matteotti, le autorità di polizia mettono in campo le contromisure per evitare la proposizione di iniziative antifasciste. A Savona però qualcosa sfugge alle strette maglie del controllo fascista, cosicché il giovane Sandro Pertini riesce a portare a compimento la beffa organizzata con i compagni socialisti e comunisti. Di seguito, il racconto del futuro presidente della Repubblica.
Dopo il processo a mio carico del 2 giugno 1925, ripresi la mia attività antifascista. Così pensai di onorare pubblicamente la memoria di Giacomo Matteotti. Presi accordi con giovani comunisti. Allora in Savona, per mia iniziativa, si era costituito un fronte politico che andava da noi socialisti unitari ai comunisti, in difesa di Sacco e Vanzetti. Questo fronte naturalmente svolgeva anche attività antifascista. Avevo in quell’epoca costanti contatti con esponenti comunisti, tutti in gambissima: Pippo Rebagliati, Alietto, poi sindaco di Savona, Crotta… Li misi al corrente del mio piano per Matteotti. Essi l’approvarono e mi assicurarono la collaborazione di giovani comunisti molto coraggiosi e intelligenti. Ed ecco la diavoleria che combinai. Il 9 giugno 1925 mi recai da un fioraio e ordinai una corona di alloro piccola di diametro, poi acquistai un nastro rosso e grandi lettere dell’alfabeto in cartone dorato. Andai nel mio studio e attaccai sul nastro le lettere dell’alfabeto in maniera da comporre questa frase: «Onore a Giacomo Matteotti». Confezionai quindi un pacco che potesse apparire come un grosso panettone. Verso la mezzanotte mi recai alla stazione in modo da non essere visto e ne uscii confuso con i passeggeri dell’ultimo treno che arrivava da Genova. La notte tra il 9 e il 10 Savona era pattugliata in lungo e in largo da squadristi e da militi fascisti armati di manganello, perché le autorità temevano che si preparasse qualche cosa per ricordare l’anniversario dell’assassinio di Matteotti. Io, col mio pacco, me ne vado dalla stazione al Prolungamento, verso la località ove un tempo vi era la fortezza in cui fu prigioniero Giuseppe Mazzini. Sul muro della fortezza, che dava su una piazza, c’era un gancio proprio sotto la lapide, che ricordava la prigionia di Mazzini. A quel gancio era usanza appendere corone per ricordare anniversari patriottici. Lungo il muro si alzava una siepe. Ricordo che l’appuntamento con i comunisti l’avevo in un posto non molto poetico, cioè un vespasiano che era sulla destra andando verso il mare. Vado nel vespasiano e vi trovo un giovane comunista che mi dice che dietro la siepe mi attendono due suoi compagni. Entro nella siepe e li trovo. E’ trascorsa mezzanotte. Sentiamo passare le pattuglie dei fascisti. Rimaniamo in silenzio, quasi a trattenere il fiato. Passate le pattuglie i due giovani mi alzano ed io appendo la corona al chiodo. Aggiusto bene il nastro perché la scritta appaia chiaramente. Ci abbracciamo e, felici del colpo riuscito, ognuno se ne va per la sua strada. Gli operai dell’Ilva, fabbrica allora vicina alla fortezza, avvertiti la sera prima, mentre vanno il mattino del 10 al lavoro sfilano in silenzio sotto la corona, si tolgono il cappello e la guardano… e qualcuno aveva le lacrime agli occhi. La corona, caso strano, nonostante la rigorosa sorveglianza, venne scoperta solo verso le 11 del giorno 10. Le autorità immediatamente pensano a me quale autore del… misfatto. Si riuniscono gli esponenti fascisti presso il procuratore del re; viene esaminata l’azione e studiati i provvedimenti da prendersi. Il procuratore conclude che, non essendovi gli estremi di alcun reato, non può spiccare mandato di arresto nei miei confronti. «Ci penseremo noi!», dicono i fascisti. E ci pensarono: il 12 giugno fui manganellato a sangue.
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