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I Patti Lateranensi, al di là degli sfoghi anticlericali

Creato il 23 ottobre 2012 da Uccronline

I Patti Lateranensi, al di là degli sfoghi anticlericaliLa conquista di Roma da parte delle truppe sabaude nel 1870 scatenò un conflitto tra Chiesa e Stato destinato a durare per più di mezzo secolo. Da un lato, la gerarchia vaticana con a capo Pio IX, seppur non ostile all’indipendenza dell’Italia, non era intenzionata a cedere il suo territorio che gli era stato trasmesso dai suoi predecessori per oltre un millennio, mentre dall’altro nonostante la formale politica di separazione tra Chiesa e Stato, il governo italiano aveva introdotto una serie di normative fortemente anticlericali.

Tuttavia entrambe le parti erano coscienti che la storia del papato era strettamente legata a quella dell’Italia e se vi furono episodi di gravi scontri come durante il trasporto della salma di Pio IX o la costruzione della statua dedicata a Giordano Bruno, non mancarono tentativi di mediazione per giungere ad un accordo. Questi accordi erano tuttavia destinati a fallire, ma verso l’inizio del ’900 si assistette alla nascita di un progressivo avvicinamento dei cattolici nella vita politica del paese (patto Gentiloni, nascita del partito popolare, ecc.). La Conciliazione sembrava farsi vicina nel 1919: durante i trattati di pace a Parigi, Vittorio Emanuele Orlando incontrò un prelato della Santa Sede, Monsignor Bonaventura Cerretti che propose che l’Italia concedesse l’indipendenza e la sovranità alla Città del Vaticano. Proposta che ebbe l’assenso di Orlando, ma che venne bocciata dal re Vittorio Emanuele III notoriamente anticlericale. Errore che Benito Mussolini ebbe l’accortezza di non fare.

Per capire come abbia fatto il fascismo a salire al potere è necessario analizzare gli sconvolgimenti dovuti alla prima guerra mondiale. Seppur uscita vincitrice dalla Grande guerra, l’Italia si trovava in una situazione di forte crisi: le sue ambizioni territoriali erano andate deluse, il conflitto aveva causato dei forti sconvolgimenti economici, la nazione si trovava oppressa da un enorme conflitto di classe ed era amministrata da una classe dirigente che anteponeva i suoi interessi personali a quelli del bene pubblico. Inoltre il paese era attraversato da una crescente ondata di violenza politica, fortemente alimentata dai partiti fascisti, che venne debolmente repressa dalle forze dell’ordine che anzi, finivano spesso per non vedere i soprusi e le aggressioni commessi contro la popolazione. Il governo parlamentare era incapace di mantenere l’ordine e di pronunciare una strategia politica coerente per risolvere i problemi del paese. Dato che gli stessi liberali erano paralizzati dalla paura di perdere la loro influenza politica e dal timore di vendette personali, i conservatori antifascisti della corte reale, dei circoli cattolici, dell’esercito e dell’amministrazione iniziarono a vedere in Mussolini l’unico uomo capace di mantenere l’ordine.

Nel 1921 Giovanni Giolitti, leader del partito liberale, organizzò un’alleanza elettorale che permise ai fascisti di ottenere 35 seggi in parlamento e l’anno seguente le camicie nere organizzarono la marcia su Roma. Seppur, “l’esercito” di Mussolini sarebbe potuto essere facilmente sconfitto, il re temendo un bagno di sangue e la prospettiva di perdere il trono, si rifiutò di firmare il decreto che prevedeva l’imposizione della legge marziale e assecondò la richiesta di Mussolini di essere nominato primo ministro concedendogli di formare un nuovo governo. Sebbene il nuovo governo fosse composto da tutti i rappresentati degli schieramenti politici (eccetto i socialisti), Mussolini dichiarò pubblicamente che il potere era in mano ai fascisti e che non avrebbe tollerato alcuna opposizione. I pochi parlamentari che protestarono vennero presto intimiditi (o come nel caso di Matteotti, uccisi), mentre i partiti e le istituzioni politiche del paese sollevarono ben poche o nessuna obbiezione e lasciarono che Mussolini attuasse una serie di interventi repressivi che miravano a portare l’Italia verso l’autoritarismo fino a che nel 1926 il duce ottenne l’effettivo potere assoluto (D. Alvarez, Spie in Vaticano, Roma 2003 pp. 175-178).

L’atteggiamento verso la Chiesa da parte del dittatore italiano non fu univoco. All’inizio della sua carriera Benito Mussolini mostrò un atteggiamento fortemente anticlericale. Scrisse numerosi articoli contro la religione e contro il Vaticano e il programma iniziale del partito fascista prevedeva l’espropriazione dei beni appartenenti alla Chiesa e lo sradicamento del potere religioso nella società. Una volta salito al governo però il futuro duce cominciò a cercare l’appoggio dei cattolici per rafforzare la sua posizione politica all’estero e all’interno del paese. Iniziò così la tattica del “bastone e della carota” ossia mentre da un lato per compiacere il Vaticano emanò una serie di provvedimenti in favore della Chiesa (introduzione dell’ora di religione nelle scuole, affissione dei crocifissi, interventi dello stato tesi a risanare il Banco di Roma, ecc.), dall’altro si ebbero aggressioni e minacce contro associazioni cattoliche e preti accusati di essere in combutta con i popolari come Giovanni Minzoni. Durante la votazione della legge Acerbo i fascisti fecero deliberatamente circolare la voce che Mussolini avrebbe occupato tutte le parrocchie di Roma se i popolari avessero votato a sfavore della legge e sfruttarono l’ambigua posizione di Luigi Sturzo (sacerdote e leader del partito popolare allo stesso tempo) per spingere la Chiesa a dare le sue dimissioni “sotto pretesto di politica in violenze, particolarmente verso sacerdoti ed opere cattoliche” come consigliò il cardinale Pietro Gasparri (G. Zagheni, La Croce e il fascio, Milano 2006 pp. 41-47).

Il Vaticano, pur deplorando le violenze, guardava con timore al disordine sociale e politico del dopoguerra e supponendo (non in maniera del tutto infondata) che l’Italia dovesse scegliere tra il caos sociale e l’autoritarismo fascista, scelse quest’ultimo reputandolo il male minore. Mussolini inoltre si proponeva di risolvere definitivamente la Questione Romana, problema ritenuto di primaria importanza dalla Santa Sede e che il partito popolare aveva invece trascurato. Le trattative iniziarono nel 1926 e si protrassero per tre anni perché avvennero delle interruzioni causate dalla repressione fascista contro alcuni circoli cattolici. L’11 febbraio del 1929 vennero alla fine firmati i Patti Lateranensi nella quale i postulati fondamentali erano un «Trattato» che stabiliva la nascita dello Stato Pontificio e riconosceva la religione cattolica come religione di stato, un «Concordato» che definiva i mutui rapporti tra Stato e Chiesa in materia religiosa e una «Convenzione Finanziaria» cioè la somma che la Santa Sede doveva ricevere come risarcimento per l’espropriazione dei territori e dei beni della Chiesa.

Due giorni dopo, Pio XI parlando ad un gruppo di professori e studenti dell’Università Cattolica di Milano, spiegò il senso dell’accordo compiuto e pronunciò la famosa frase sul Duce: “E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse la preoccupazione della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte le leggi, diciamo tutti quei regolamenti erano altrettanto feticci.” La frase, più che essere una lode al Duce, era una critica all’anticlericalismo mostrato dalle istituzioni liberali, ma la stampa e la propaganda del regime ripresero con grande pompa questo passaggio ignorando il nucleo centrale del discorso.

Il Concordato all’epoca divise l’opinione dei cattolici tra chi non giudicava conveniente per la Chiesa stringere un accordo con un regime illiberale che tra le altre cose aveva distrutto il cattolicesimo politico e aveva riportato in sagrestia le associazioni e chi invece vedeva positivamente la soluzione della Questione Romana e il ristabilimento della piena e invisibile indipendenza al capo della Chiesa. Bisogna aggiungere che con il Concordato, Pio XI non intendeva avvallare il partito politico in quel momento al potere, ma era concepito con un trattato tra due autorità sovrane quali erano la Chiesa e lo Stato. (G. Sale, La Chiesa di Mussolini, Bergamo 2011 pp. 236-239).

Effettivamente, gli accordi presi con la Santa Sede erano dettati solo dal calcolo politico e non mancarono negli anni seguenti accesi scontri che portarono la Chiesa a distaccarsi dal regime. Tuttavia, il Concordato ebbe il merito di porre fine ad un conflitto aperto da più di cinquanta anni e diede alla Chiesa la necessaria indipendenza di cui aveva bisogno (che sarà tra l’altro molto utile durante la guerra dato che all’interno delle proprietà vaticane trovarono rifugio molti partigiani). Inoltre, i Patti Lateranensi verranno riconosciuti costituzionalmente nell’articolo 7 dall’assemblea costituente sorta nel 1948 ricevendo persino i voti favorevoli del partito comunista di Palmiro Togliatti (anche in questo caso per calcolo politico, ma questa è un’altra storia).

Mattia Ferrari


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