Quando hai dieci anni ti pare che tutto il mondo non può fare a meno di riconoscere la tua adultità, la tua bambinaggine adultomorfa. Quando hai dieci anni è come cinquanta anni dopo del non ora, non qui ma nel 1960, a Ischia, e tu ancora non lo sai a dieci anni come ci ripenserai a quella prima stagione della vita – la stagione dei poeti, dicono –, ancora non sai lo scrigno che sei in quell’epoca in cui spighi e decanti la delicatezza che si nasconde nel velluto di una carezza femminile, la crudezza.
Lo saprai soltanto a cinquant’anni.
10 è un numero impettito. Un omino all’impiedi, con la testa leggermente reclinata e di spalle al suo stupore, al suo zero che è l’inizio – ogni volta lo sarà – di qualcosa di raro. Questo mi viene in mente quando vedo il numero dieci, il 10.
Erri De Luca si catapulta nel buco nero della sua infanzia, i suoi dieci anni se li congela, accorcia e allunga la sua stringa temporale e non se ne fotte proprio niente di quello che pensiamo noi.
Erri te lo devo proprio dire: “fai troppo bbuon’”.
Anche se noi pensiamo bene. Anche se noi ci innamoriamo del suo suono. Anche se ci fa un po’ specie questa istanza di verità che afferma un valore per la nostra presenza nel mondo, che ci ‘mantiene’ nel tempo e ci ‘tiene’ per mano, perché noi non saremo mai pronti a riconoscerci, a farci ‘stati’ per quello che abbiamo ‘avuto’.
I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli, settembre 2011) ci racconta un pezzo di madre, uno di padre, una scelta, una freccia scoccata a ritroso nel tempo, una terra che non sarà mai più così, una ragazza che non ha un nome e perciò è una ragazzina, e non una bambina, e che conosce il movimento che parla ogni animale, uno sguardo che non si ri-posa e si spalanca sul corpo nuovo che deve rompersi, deve sgusciare fuori dal piccolo e debole corpo vecchio, per farsi parvenza di uomo.
Io, da grande, quando cresco e se ce la faccio, voglio assomigliare a Erri De Luca.
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