Pubblichiamo l’articolo di Giuseppe Oddo apparso sulla Domenica del Sole 24 ore dell’8 marzo sul libro-inchiesta I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia capitale, di Lirio Abbate e Marco Lillo, edito da Chiarelettere
Capita che il buon giornalismo riesca a precedere l’inchiesta giudiziaria e fare da apripista, con i mezzi artigianali e le intuizioni del cronista, al lavoro delle forze dell’ordine. È successo a Lirio Abbate, tra i giornalisti più impegnati nell’informazione sulle mafie, costretto a vivere sotto scorta. L’inviato dell’Espresso aveva agganciato già nel 2012 una “gola profonda” che gli forniva notizie sulla caratura criminale di Massimo Carminati e sull’intreccio tra la sua associazione a delinquere e i bassifondi della politica romana. Poi, nel 2014, è deflagrata l’inchiesta giudiziaria: la Procura di Roma ha sollevato il coperchio su quello che l’ex terrorista nero ed ex della banda della Magliana definiva, nelle intercettazioni, “il mondo di mezzo”: la suburra dove tutti si incontrano e fanno affari, politici di destra e di sinistra, cooperative bianche e rosse, sindaci, amministratori e manager pubblici, imprenditori e faccendieri. Ed è in quel momento che ha preso corpo l’idea di un libro a quttro mani con Marco Lillo, tra i più prolifici cronisti giudiziari.
Quello che gli autori ci rappresentano ne I re di Roma, al di là dell’inchiesta su “Mafia Capitale”, è un verminaio di proporzioni inaudite: un’organizzazione che muove le leve dell’amministrazione, che trova linfa nella giunta Alemanno come in quella Marino, che esercita il controllo sugli appalti e si insinua come un cancro nella vita pubblica: persino nel mondo dei vip dove troviamo – raccontano Abbate e Lillo – anche il capitano della Roma, Francesco Totti (non indagato), come socio di una immobiliare che sottoscrive un affitto d’oro con il Comune per 35 appartamenti alla periferia di Roma.
Carminati e il suo clan appaiono legati da un forte vincolo associativo, sono in rapporti con Cosa nostra e ‘ndrangheta, operano in simbiosi con la politica e applicano le regole titpiche dei mafiosi quali l’omertà e il rispetto del capo. A differenza della mafia tradizionale, però, il clan non punta al pizzo, non offre quelli che il sociologo Diego Gambetta ha definito in un suo saggio “servizi di protezione”, ma assicura “servizi di accesso”: la capacità di “…stringere un patto – osservano Abbate e Lillo – nel quale sia chiaro fin dall’inizio che la protezione è… all’interno di un accordo complessivo nel quale rientrano anche… le entrature con la politica romana per ottenere i permessi o le attività collaterali alla costruzione con il movimento terra”. Cambia il metodo dell’estorsione: non è più l’organizzazione criminale a lavorare per l’imprenditore, garantendogli l’integrità fisica e delle attività economiche in cambio di denaro, ma è l’imprenditore “a rischiare per garantire profitti all’organizzazione”.
Gli autori intravedono, dietro la rete di relazioni che memerge dall’inchiesta, un sistema che “… a detta degli stessi protagonisti, presiede all’accordo tra Pd e Ncd che sorregge il governo Renzi”. Un sistema in cui il braccio economico di Carminati, Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa 29 giugno, partecipa alle cene di finanziamento del Pd organizzate da Matteo Renzi e in cui l’ex vicecapo di gabinetto dell’ex sindaco Walter Ventroni, Luca Odevaine, cerca di costruire la “santa alleanza” tra il colosso delle cooperative emiliane Manutencoop e il gruppo La Cascina, vicino a Comunione e liberazione, per un appalto da 1,4 miliardi della Regione Lazio, anch’essa a guida democratica.
In questo contesto, destra e sinistra appaiono categorie consunte, concludono Abbate e Lillo: siedono “in Parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi”. Come dire, se un’opposizione non c’è più in Parlamento figuriamoci nel consiglio comunale di Roma. “Nazione corrotta, capitale infetta”, titolava L’Espresso nel 1955 per un’inchiesta giornalistica sul sacco edilizio di Roma. La questione si ripropone a sessantanni di distanza quale segno di fragilità delle nostre istituzioni.