di Paolo Balmas
A partire dal 2014, la consolidata politica giapponese sulla produzione e sulla vendita del riso subirà un radicale cambiamento. Il controllo delle quote, che ha radici storiche molto lontane, dal 1970 è stato impostato con l’obiettivo di mantenere il prezzo del riso alto e di garantire agli agricoltori un sussidio statale annuale. Nell’arco di quattro anni, entro la fine del 2018, sarà eliminato ogni tipo di aiuto economico da parte del governo e i prezzi saranno liberalizzati. La conseguenza, secondo alcuni analisti giapponesi, sarebbe un notevole incremento della produzione del 40% rispetto all’attuale e un importante abbassamento dei prezzi. Ciò permetterebbe di rendere il riso giapponese molto competitivo sui mercati esteri e incrementare le esportazioni come mai avvenuto prima.
Le scelte rivoluzionarie di Abe arrivano proprio nel vivo del dibattito sul Trans Pacific Partnership (TPP), il trattato che dodici Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico stanno concordando al fine di abbattere i limiti che regolano la libertà di scambio delle merci e la proprietà intellettuale. Nelle ultime settimane si sta rafforzando la tesi secondo cui sarebbe proprio il Giappone a rallentare gli accordi a causa delle tariffe protettive su alcuni prodotti agrari tra cui il riso: tariffe che Tokyo non vuole eliminare o, nel migliore dei casi, vuole ridurre progressivamente. La grande riforma di Abe avrà varie ripercussioni, sia da un punto di vista politico interno che economico in un’ottica internazionale.
Fonte: Canon Institute for Global StudiesPer comprendere cosa comporta la scommessa del Primo Ministro bisogna prima di tutto fare due considerazioni. La prima riguarda il riso in sé. In Giappone è molto più di un alimento e nell’immaginario comune è molto più di un simbolo. Il riso è un dono scaturito dal corpo di una divinità morente. Come prodotto della terra, dell’acqua, del sole e del vento, è la manifestazione di Inari, il kami (divinità scintoista) venerato in più di trentamila santuari sparsi in tutto l’arcipelago. Ogni anno una parte della produzione è utilizzata per fare il sakè destinato, oltre che al consumo, alle offerte votive nei santuari scintoisti. Il rapporto dell’uomo giapponese con il riso va ben oltre il pasto; ciò vale soprattutto per chi lo coltiva. Sottoporre il riso a logiche di mercato il cui unico fine è generare profitto e far valere maggiormente il concetto di quantità su quello di qualità, potrebbe non piacere a molti. Infatti, la cosa che preoccupa il governo Abe è la reazione alla progressiva eliminazione degli incentivi economici, poiché non comporta solo un’alterazione del rapporto economico fra le parti. Gli agricoltori, in particolare i produttori di riso, sono sempre stati un segmento politico di riferimento per il Partito liberaldemocratico (PLD) attualmente al governo. Le famiglie proprietarie di risaie sono circa 1,2 milioni. Tuttavia, è ormai chiaro che una parte di esse sono favorevoli al cambiamento.
La seconda considerazione, invece, riguarda il mercato del riso. In Giappone si producono circa otto milioni di tonnellate di riso. Le piantagioni giapponesi sono fortemente frammentate, soprattutto in pianura. Una gran parte dei coltivatori ha a disposizione meno di un ettaro di terra. Le cose cambiano in montagna, dove le proprietà sono più estese. La differenza principale tra le due aree, dovuta all’estensione delle proprietà, alla conformazione del terreno e al clima, è la variazione di tempo che si dedica al lavoro di semina e di raccolta. Per ognuna di queste fasi, in pianura bastano due o tre settimane mentre in montagna servono più di due mesi. Ciò definisce delle variazioni nei costi di produzione. I piccoli produttori hanno la diffusa usanza di dedicarsi alle risaie il fine settimana e di svolgere un altro lavoro nei giorni feriali. Con il passare del tempo molti piccoli appezzamenti cominciano a non esser più produttivi, semplicemente perché finiscono per essere abbandonati. Alla situazione si aggiunge l’invecchiamento dei coltivatori che hanno un’età media di sessantacinque anni. Molti di questi, per di più, non hanno eredi interessati a prendere le redini dell’attività. Le importazioni sono limitate a meno di un milione di tonnellate, a causa delle elevate tariffe di protezione. Alle esportazioni è destinata una parte esigua. Il dato allarmante è la diminuzione delle famiglie proprietarie di circa la metà nell’arco di una decina di anni.
Se da un lato la riforma di Abe è stata progettata per risolvere la stagnazione in cui sta scivolando il settore, dall’altro ha il chiaro obiettivo di prepararsi alle conseguenze di un accordo internazionale del commercio, il TPP, che prevede la liberalizzazione dei mercati.
Il Trans Pacific Partnership implica un ampio numero di interessi che richiamano anche il settore automobilistico, nel quale il Giappone è particolarmente coinvolto. Sono stati trattati temi come la proprietà intellettuale, ad esempio in relazione ai brevetti in materia di prodotti farmaceutici. Eppure il dibattito si concentra sul settore agricolo. È curioso il fatto che alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, hanno mostrato simili perplessità nell’affrontare l’analisi del Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’accordo che sancirà il libero commercio fra Europa e Paesi americani. Il bisogno di proteggere i prodotti agricoli sembra essere diffuso e soprattutto capace di condizionare le trattative.
Il risultato più recente, in ambito TPP, è stato un commento datato 12 marzo 2014, apparso sul sito dell’Office of the United States Representative, che dichiara che nel dialogo con la controparte giapponese vi sono ancora molte lacune che riguardano il trattamento dei prodotti agricoli. Tokyo, in particolare, non vuole cedere alla liberalizzazione delle importazioni di riso, di carne di manzo e di maiale. Prodotti ritenuti sacri. Ma è preoccupata anche del settore caseario che in Giappone è regolato da una lunga serie di leggi locali e condizionato dalle quote, che rendono il mercato difficilmente accessibile.
Finora le trattative sono procedute piuttosto lentamente. A quanto pare gli Stati Uniti hanno l’intenzione di forzare le tappe. Al Giappone, invece, serve tempo per constatare le reazioni interne alla riforma, ovvero se il mercato reagirà veramente in modo positivo e assumerà un atteggiamento aggressivo sul fronte delle esportazioni. A livello internazionale è comunemente riconosciuto che il riso giapponese sia di primissima scelta. Secondo un rapporto del Canon Institute for Global Studies, solo una percentuale minima della produzione mondiale, circa l’1%, può competere con il totale di riso prodotto in Giappone. Il fatto che i consumatori all’estero ne accettano il prezzo tanto più alto, è considerato un riconoscimento della qualità quasi unica al mondo. Il costo del koshihikari giapponese (un tipo di riso che viene esportato) è del 60% più alto della stessa qualità di riso prodotta in California e due volte e mezzo di quella prodotta in Cina. Il Giappone è un grande produttore, il decimo al mondo (2011), ma non si può dire la stessa cosa per l’esportazione. La riforma ha l’obiettivo di portarlo nella classifica dei grandi esportatori.
L’abbattimento delle tariffe previsto dal TPP vedrebbe il riversarsi sul mercato interno di tonnellate di riso coltivato all’estero e venduto a prezzi molto bassi. Si calcola che solo dagli Stati Uniti giungerebbero oltre seicento milioni di dollari all’anno di prodotto finito. Le importazioni attuali, come già detto, sono incredibilmente modeste. Una quantità significativa di riso potrebbe essere acquistata se sostituisse il prodotto locale che già copre la domanda. Considerato l’aumento di produzione indicato, la quantità da esportare sarebbe davvero notevole se si aggiungesse anche quella sottratta al mercato interno e sostituita dalle importazioni. L’attuale fetta di PIL rappresentata dal settore agricolo, circa l’1%, sarebbe notevolmente ampliata.
Tuttavia, le incomprensioni con Washington e le resistenze di Tokyo, sembrano avere un valore più politico che economico. Per farsene un’idea basta riflette sui numeri relativi alle previsioni sui guadagni degli Stati Uniti se nel 2014 venisse siglato il TPP. Si parla di un aumento pari un punto percentuale del PIL entro il 2025. Non è poi un cambiamento tanto rivoluzionario. Eppure, il Financial Times ha definito il TPP come la spina dorsale del pivot to Asia, dal punto di vista economico. Allora, il TPP deve essere inquadrato in un’ottica a lungo termine e, soprattutto, da un punto di vista geopolitico.
Oggi, non esiste un Free Trade Agreement (FTA) bilaterale fra USA e Giappone. Esistono invece innumerevoli FTA bilaterali fra Canada, USA e Australia con i vari Paesi che si affacciano sul Pacifico. Ciò non permetterà a queste tre potenze di beneficiare subito del TPP, ma consentirà un veloce sviluppo a quei Paesi che fino ad ora non hanno potuto sfruttare le proprie potenzialità fino in fondo. Primo fra tutti il Vietnam che nell’arco di dieci anni, si è calcolato, aumenterà il PIL di quasi un terzo (+28%). Se si raggiungesse un patto stabile fra Washington e Tokyo si darà vita a un forte contrappeso alla presenza cinese nella regione. Questo è uno dei grandi obiettivi impliciti del TPP. La crescita di Paesi come il Vietnam e la Malesia, insieme al Giappone, potranno riuscire a contenere l’espansione di Pechino. Ma perché tanto interesse nel settore agricolo?
Fonte: Canon Institute for Global StudiesLa Cina si trova in una condizione del tutto opposta rispetto a quella giapponese. Il più grande produttore di riso al mondo ha mantenuto i prezzi troppo bassi fino a oggi. In questi anni si è registrata una differenza enorme tra i guadagni pro-capite dei cittadini cinesi che vivono nelle città e coloro che vivono di agricoltura nelle campagne. Se il governo tenterà di appianare tale differenza, ed è costretto a farlo presto dato che rappresenta un problema socio-politico di dimensioni enormi, il costo dei prodotti agricoli è destinato ad aumentare notevolmente. In questa ottica, il Giappone quanto gli altri grandi produttori del Sud-Est asiatico, potranno cominciare a competere addirittura sul mercato cinese. Un pericolo non indifferente per Pechino che scorge una minaccia capace di toccare il delicato equilibrio fra esportazioni, demografia e industria alimentare.
L’importanza del colloquio tenutosi fra il Presidente Obama e il Premier Abe lo scorso 24 aprile racchiude vari fattori che vanno ben oltre il rapporto del Primo Ministro giapponese con i propri elettori. Australia e Canada attendono i risultati. La prima per definire finalmente il rapporto con Tokyo sui prodotti caseari e le carni; la seconda, invece, perché ha dichiarato di voler attendere la posizione del Giappone per esprimersi di conseguenza sulla propria politica in materia di prodotti agricoli. Ma l’eventuale resistenza di Tokyo non rappresenterà un precedente solo per Ottawa, ma anche per quei Paesi europei che si accingono a firmare il TTIP.
* Paolo Balmas è Dottore in Lingue e Civiltà Orientali (Università La Sapienza, Roma) e membro del Consiglio Direttivo di Istrid Analysis
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