(Giacomo Ceruti, Natura morta con salame, metà del
XVIII secolo, Milano, Pinacoteca di Brera)
Tornando al discorso sul rapporto tra territorio e salumi, è la grande complessità del primo che determinò nel corso dei secoli la multiformità dei secondi. Escludendo le prime varietà prodotte, la loro matrice è indubbiamente medievale, ed è riconducibile a delle esigenze puramente pratiche.
Parlando di questi prodotti, non si può non ricordare l'importanza che ha avuto in passato il sale nei loro processi di lavorazione. Il legame esistente esula dalla pura importanza pratica ma si carica di valori culturali e sociali, definendo così un sistema con le proprie regole e caratteristiche. In ambito medievale il sale non era solo un mezzo di conservazione ma un vero e proprio veicolo di distinzione sociale. Per molto tempo il gusto del salato fu associato alla pratica della conservazione e quindi era estraneo ai ceti elevati che potevano permettersi derrate alimentari fresche, spesso anche quando esse non erano reperibili sui mercati locali perché fuori stagione. In virtù di ciò, il sale nei ricettari rivolti agli ambienti aristocratici non compariva quasi mai, tranne come raccomandazione di usarlo poco o, più semplicemente, per condire l'insalata; la veridicità di ciò è confermata dalle parole di Bartolomeo Scappi (Dumenza, 1500-Roma, 13 aprile 1577) cuoco italiano, "del sale io non ne parlo, perché sarà in arbitrio".
(Xavier della Gatta, Il venditore di salumi, attivo a Napoli
tra il 1777 e il 1827)
Di fatto però i salumi (e di conseguenza anche il sale) giocarono per molto tempo una funzione importante non solo nella cucina ma anche e soprattutto nel commercio dell'epoca.
Occorre chiarire però un fraintendimento culturale e gastronomico che persiste in noi tutt'ora: per secoli insaccati e salcicce di vario formato furono modalità per sistemare la carne e quindi alimenti prima che conserve. Molti nomi infatti non servivano ad indicare preparazioni composte da polpette di carne racchiuse in budelli.
Bisogna fare una precisazione però: diversamente da ciò che pensiamo, i ricettari medievali non comprendevano i salumi affettati come capita oggi nei menù, questo perché non era una pratica alimentare dell'epoca. I salami cotti erano invece molto consumati, come scrive lo stesso Scappi:
"Per cuocere ogni sorte di salami di carne di porco. I salami grossi, e li prosciutti si potranno cuocere con acqua, e vino. E' ben vero che li presciutti molte volte si cuoceno con fieno nuovo, e acqua, e maggiormente nel mese di Maggio. Il che si fa accioche pigli l'odor dell'erba nuova; ma prima che si cuocano vogliono stare in acqua tiepida (...). Alle volte i presciutti di porco giovane si cuoceno con latte di capra o di vacca, havendoli però prima fatti stare in molle nel modo sopradetto. E havendoli fatto bollire in due acque semplici (...) si poneranno in un vaso, nel qual sia tanto latte, che stiano coperti per tre dita di vantaggio con due libre di zuccaro per ogni quantità d'otto libre di presciutto, e faccianosi finir di cuocere in questo medesimo modo (...). Le mortadelle (...) si cuoceno con ligumi, et herbami, e si serveno calde. Li salsiccioni che non siano di estrema grossezza alle volte si tagliano per lo traverso in fette, e si scaldano su la graticola, e si serveno con sugo di melangole sopra. (...)"
I salumi fanno parte dell' "economia della conserva" perché, grazie alla loro natura, potevano essere facilmente immessi sul mercato e circolare anche a lunghe distanze; potremmo quindi affermare che in virtù di ciò essi fanno parte di quell'insieme di fattori che contribuirono a generare un'identità gastronomica italiana, proprio per la loro predisposizione a poter varcare i confini territoriali di produzione.
Sono prova di ciò le opere di carattere letterario che li vedono come protagonisti, si pensi all'elogio dell'animal di Sant'Antonio abate fatto dall'Ariosto, che altro non è che un catalogo delle specialità italiane di molti territori.
Tuttavia, per assistere al loro consumo da parte delle classi elevate bisognerà aspettare il Rinascimento; sulla tavola rinascimentale oltre all'arte dei trincianti e degli scalchi la cui competenza era quella di tagliare i grandi pezzi di carne, si elaborò anche l'arte di affettare il prosciutto, il salame e la mortadella.
(Pieter Aertsen, Spaccio di carne, olio su tela, XVI secolo,
Svezia, Università di Upsala)
Durante il Settecento il prosciutto divenne un antipasto alla moda e, grazie anche alla passione dell'epoca per il mondo rurale e contadino, un antipasto comodo, pratico e gustoso per il picnic.
Nell'Ottocento a fianco dei salumi di matrice casalinga, l'unica tipologia esistita fino ad allora, si affacciarono grazie agli effetti della Rivoluzione Industriale, anche quelli prodotti su più larga scala e non più per il consumo dei componenti della famiglia.
I nostri protagonisti sono presenti anche nell'arte, ad essi viene associata la caratteristica attribuita all'animale da cui derivano: il peccato, in particolar modo quello di gola.
(Jan Steen, L'allegra famiglia, 1668, Amsterdam,
Rijksmuseum)
(Edouard Manet, Natura morta con prosciutto,
1875-1878, Glasgow, Art Gallery)
Il primo quadro posto qua sopra immortala il pranzo festoso che si svolge in una casa. Il prosciutto che occupa il centro della scena, è il simbolo della festa, l'alimento che viene custodito per le occasioni particolari; la padella posta in basso a sinistra identifica la scena di matrice popolare che l'opera illustra.
La seconda opera è invece un valido esempio del cambiamento di tendenza operato nell'Ottocento: il prosciutto, grazie all'ampliamento della produzione, è consumato sia in campagna che in città, divenendo anzi simbolo della nuova classe borghese europea, dinamica e produttiva. Il piatto d'argento su cui poggia è la prova di quanto affermato e la testimonianza del cambiamento.
Le problematiche legate a questa categoria di cibi nel Novecento non possono essere riassunte ora ma saranno oggetto di un'analisi più approfondita.