di Marco Grassano
Non di rado, scorrendo le pagine di qualche libro, mi tocca di pensare: “Ecco qui una cosa che piacerebbe a Mario Mantelli” (mi riferisco, è ovvio, al nostro autore, non all’omonimo sindaco di Carbonara Scrivia). Si tratta di opere che, pur se non sempre di natura strettamente autobiografica, tendono comunque a un’evocazione, a una ricomposizione quasi alchemica dell’infanzia e dei dettagli che l’hanno caratterizzata, e in più sono scritte in una prosa compatta, come incisa nel marmo, con parole selezionate, soppesate e definitive. Che so io, testi quali Infanzia berlinese di Walter Benjamin, o Istanbul di Orhan Pamuk, o Le botteghe color cannella di Bruno Schultz. Il primo di questi titoli è, notoriamente, un riferimento imprescindibile (un cult book, direbbero gli anglofili) per il Nostro; su Pamuk non ho ad oggi riprove; delle Botteghe, invece, oltre all’assonanza semantica col testo mantelliano sulle drogherie, trovo una favorevole citazione nel secondo dei saggi qui raccolti… “Saggi”, o dovrei piuttosto dire “racconti”? Sicuramente non “articoli”, anche se magari in origine possono essere stati concepiti per qualche giornale o rivista: si tratterebbe di una definizione troppo riduttiva. No, “saggi” è la parola giusta, nel senso originale del termine francese essai, ossia “tentativo”, “prova”, “sperimentazione”, perché sono tutti tentativi (riusciti!) di rendere per verba i profumi, i colori, i suoni e i sapori di un’epoca perduta (sì, certo, anche Baudelaire ci ha messo del suo: “les couleurs, les parfums et les sons se répondent…”).
Va detto che in questi testi sono riscontrabili curiose consonanze anche con opere pubblicate successivamente alla loro stesura: penso alle riflessioni sull’autunno e sull’inverno o alle note sulla preparazione degli agnolotti, sviluppate in modo affine nel volume di Enzo Bianchi Ogni cosa alla sua stagione, uscito quando le pagine che offriamo ai lettori erano da tempo in mio possesso.
Sono nato qualche anno dopo l’amico Mantelli (quattordici, per essere precisi), ma la (troppo) precoce scomparsa materna ha lasciato l’incombenza di allevarmi a mia nonna, per cui il mio apprendistato infantile, almeno fino agli anni della scuola, è stato quello della generazione precedente. Insomma, è un po’ come se fossi nato anch’io negli anni Quaranta: ho così vissuto come stimolanti novità esperienze abituali o scontate per i miei coscritti. Non dico che ciò sia stato un bene, ma certo mi consente ora di condividere una parte delle emozioni che Mario riporta. Non solo: “La natura ci ossessiona, come l’infanzia e la spontaneità, attraverso il filtro della memoria” annota Henri Lefebvre in ké, ed è proprio il mio rapporto con la natura – nella cupezza invernale di questi giorni, necessariamente mnemonico – a rendermi comprensibile il legame mantelliano con l’infanzia.
Anch’io rievoco…
… La scatola di latta dei biscotti, il cui interno dorato mi ricordava fascinosamente il lucido metallo delle corone regali, per cui volevo chiedere all’orafo presso il quale lavorava mia zia Rosita (“il Gastone”) di tagliarla e rivoltarla in modo da poterla indossare per un travestimento carnevalizio…
… La stessa zia Rosita ogni tanto raccontava di essere andata a comprare qualcosa all’Upim, ma io capivo “a Lupi”, e mi intrigava quel posto curioso col nome di animali feroci del bosco, così come il nome Vito mi evocava una superficie di fòrmica verdina rovinata dalla punta di un cacciavite (i bambini tendono a giocare molto con le parole)…
… Il salutare profumo amarognolo delle bustine di Tisana Kelémata, la cui sensazione olfattiva associavo direttamente all’immagine di un frate rubicondo, sorridente, barbuto, impegnato a trafficare in un laboratorio conventuale tra erbe, barattoli farmaceutici e bilancini (solo assai più tardi ho scoperto trattarsi di parola greca, plurale di κήλημα, “kélema”, ossia incanto, ammaliamento, seduzione: termini, invero, tutt’altro che monastici)…
… L’aroma intenso del Fernet Branca, usato come digestivo in combinazione con un decotto caldo di salvia, limone e zucchero di latte (lo zucchero lo si comprava in blocchi opalescenti che imitavano il quarzo, e per poterlo usare bisognava frantumarlo)…
… Il saporaccio dell’olio di fegato di merluzzo, che si tentava invano di smorzare con un po’ di zucchero, ma che bisognava prendere per rinforzare le gambe (più avanti fu rimpiazzato da tonde pillolette di olio di fegato di ippoglosso, accettabilmente colorate e aromatizzate all’arancia)…
… Le feste patronali al paese, in cui parenti e amici accorrevano a riempire la tavolata domenicale nella sala aperta sull’assolata campagna estiva e, scesa la sera, proseguivano calcando le assi lucide e scricchiolanti del ballo a palchetto…
… I primi giorni di caccia, sonori di cani e di schioppettate e odorosi di umidità, con gli amici dello zio Piero che partivano per le loro battute alla lepre, mentre io, troppo piccolo per seguirli, cercavo di imitarli nell’orto di casa con un fucile giocattolo (e il pianto disperato quando uno di loro lo aprì per inserirvi i proiettili a salve e io pensavo l’avesse rotto)…
… Altro pianto disperato quando le zie (materne) mi portarono in dono, tornando dalle vacanze, una splendida giacchetta da marinaio, o forse da comandante di nave (bianca, a collo alto, con i bottoni dorati e un timone blu cucito all’altezza del cuore), mentre le altre zie (paterne) non me la vollero lasciar indossare, e anzi tagliarono via il timone per appuntarlo sulla mia misera maglietta…
… Il primo incontro con un nero (ma oggi si sarebbe tentati di dire “diversamente bianco”), probabilmente delle ex colonie italiane, che era amico del nostro vicino di casa – Silvio Visconti “al Micì”, un rappresentante orafo in pensione, originario di Valenza – e che mi impressionò per i palmi rosei e l’elegante abito blu…
… I colori invitanti delle bibite che si portava nel cestino azzurro un compagno di asilo, i cui genitori gestivano il bar del circolo ENAL…
… La suggestione – affatto diversa – dei colori nell’astuccio di prima elementare: tutti lunghi, laccati, odorosi di legno, ma io ero attratto in particolare dal “giallo sole”, quasi ad anticipare e ribadire un bisogno di luce che avverto, intensissimo, tuttora…
… La suggestione dei colori gastronomici l’ho invece scoperta in Provenza, una dozzina di anni fa, ma lì siamo passati da una felicità sperata o intravista (come quella del giallo dei limoni nella poesia omonima di Montale) alla felicità reale di viaggiare in un luogo pieno di solare chiarità…
… Alcuni nomi sono sopravvissuti solo come pura traccia sonora: è il caso della Ferrochina Bisleri, della Cremidea Beccaro o del Mandarinetto Isolabella, mentre del Liquore Strega, del Rabarbaro Zucca e della Cambusa Amaricante è rimasta anche qualche immagine o strofetta dei relativi Caroselli…
… Fino al ricordo iniziale, remotissimo, una bolla di coscienza nel silenzio nebbioso della memoria: è sera, sono sdraiato nel lettone, in mezzo ai miei genitori, protetto, sicuro; poi la mano di mio padre si sporge dalla mia destra ad attraversare il mio campo visivo e a impugnare, sopra la mia testa, l’interruttore “a peretta” per spegnere la luce; la casa era quella di fianco alla cappelletta di San Rocco, nel rione Baracconi; non l’abbiamo più da quasi quattro decenni, ma per me è rimasta, anche nei sogni, la mia vera casa…
Tutto ciò è finito ben presto ed ormai svanito per sempre, più irreale di Atlantide – un’Atlantide travolta non da un cataclisma geologico, non dal Tempo, ma dalla Morte: che si è portata via (sempre in inverno, nel duro, freddo, buio inverno…) le persone che avrebbero potuto darmi un prosieguo di infanzia e di vita più caloroso, più condiviso, più sereno. “Al tempo in cui festeggiavano il mio compleanno, / io ero felice e nessuno era morto. / Nella casa antica, anche il mio compleanno era una tradizione secolare, / e l’allegria di tutti, e la mia, era certa come una religione qualunque” scrive Fernando Pessoa, e altrove riprende: “Di nuovo ti rivedo, / città della mia infanzia paurosamente perduta…”.
Eppure non coltivo alcuna nostalgia, non vorrei tornare indietro, ma semplicemente poter fruire, ogni tanto, di un po’ di luminosità marina (vista dall’alto, non dalla spiaggia delle bieche balneazioni collettive), di qualche ulivo rischiarato dal vento, di cieli tersi colorati dal tramonto e popolati di stelle. Vorrei anche che questa fosse la visione di cui godere post mortem, assieme a quella del monte Giarolo trascolorante nelle stagioni.
Ecco, questo effetto di liberazione terapeutica, questo benefico ripescare nella memoria e negli affetti per superare le amputazioni emotive dell’esistenza mi è stato regalato dalle accorte (callidae, direbbe Orazio) parole di Mario, non a caso soprannominato da Dino Molinari “il musagete”.
Parole ricche di echi e di richiami: dalla fenomenologia di Husserl, tanto cara a Francesco Biamonti, al quadro di Francis Bacon rappresentato dalla macelleria torinese di via Nizza (personalmente, sono assai poco propenso alla carne, con l’eccezione non secondaria degli agnolotti e delle tagliatelle al sugo di lepre); dalla “solarità” tutta montaliana dei limoni – “e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità…” – alle vie e campagne nebbiose di Luciano Erba (sebbene a me sia più caro il Quasimodo del “colle nitido di luna, lento / tra il murmure d’ulivi saraceni”); dall’edizione nel “Bosco” mondadoriano di Feria d’agosto (che anch’io posseggo e che mi ha fatto percepire chiaramente la dimensione simbolista del paesaggio in Pavese) alla Ferita dell’aprile di Consolo (e, perché no, di Eliot)…
Spesso dico a Mario che la sua scrittura è quella di un classico, nel senso che riesce ad essere al contempo trasparente e complessa, assoluta e capace di dire ogni giorno qualcosa di nuovo. Leggendolo, si percepisce come le stratificazioni del Tempo (della Storia?) cambino la connotazione alle parole, persino alle più radicate. Un esempio: da quando gli organi d’informazione hanno denominato “futuristi” gli aderenti al nuovo partito di Gianfranco Fini, ecco che anche un titolo suggestivo come “Drogherie futuriste” ha preso inevitabilmente ad evocare, in prima battuta, una serie di negozi aromatici (caffè, spezie…) simpatizzanti per il Presidente della Camera, poi le botteghe presso cui si serviva, per la spesa, la pattuglia di Marinetti, Boccioni e sodali, e quindi, solo in terza battuta, l’idea di un qualcosa proiettato verso il futuro, quale doveva invece per forza apparire, agli occhi di un bambino, un luogo in cui era possibile acquistare “il cibo in scatola degli astronauti”. Solo le pagine che sanno attraversare indenni grandi spazi temporali reggono a questo fenomeno. Mario non vorrebbe che lo facessi, ma io intendo proporre ugualmente il riferimento: le sue pagine ci parlano come quelle di Marguerite Yourcenar sull’imperatore Adriano. Ecco, ormai l’ho detto, e non lo posso più ritirare…
Per questo auguro, ai suoi futuri possessori, un fruttuoso percorso mnemonico e sensoriale tra le tante pieghe di questo volume. Alla fine converranno con me sull’utilità di aver trascorso così una quota del loro tempo. Dovesse invece accadere altrimenti, la colpa non sarà del libro: “Ne è valsa la pena? Tutto vale la pena / se l’anima non è piccola” diceva ancora Pessoa. Ed aveva ragione. Tu, lettore ipocrita, mio simile, fratello mio…
Alessandria, dicembre 2010
Marco Grassano