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I Signori della Strada-Londra

Da Albix

london XIIIn quest’area intorno a Leicester Square è tutto un pullulare di botteghini, teatri, pubs, discoteche, ristoranti, uffici di cambio e negozi di abbigliamento; questi ultimi, per lo più, sono di proprietà di commercianti indiani e pakistani, aperti sette giorni su sette, dalle nove del mattino sino a notte inoltrata. La presenza nell’area dei molteplici uffici di cambiamonete testimonia della cosmopolicità dei frequentatori di questo spicchio di Londra.

Tra i numerosi locali pubblici, ognuno ha la sua propria particolarità. Ad esempio il “Cafè Paris”, dietro la sua apparente normalità, custodisce un segreto noto solo ad una cerchia ristretta. Esso è frequentato da donne che, superata l’età in cui sono desiderabili dai maschi ma non ancora quella in cui esse li desiderano, vi si recano in alta toeletta per farsi adescare da qualche, più o meno, aitante giovanotto disposto a fargli scordare per qualche ora la loro solitudine ed il loro tempo, forse trascorso via inutilmente o troppo in fretta, in cambio di una lauta mancia; oppure “The worm”, ritrovo per omosessuali e lesbiche; il “Cokney Pride”, dove, oltre all’immancabile birra, scorre anche la musica tradizionale londinese.

La mia conoscenza di quei luoghi fu graduale e così quella delle persone che solitamente li frequentavano: gli immancabili ed ineffabili street’s traders.

I primi che ebbi modo di osservare, sin da quel primo lunedì mattina in cui la segretaria della B.B.C. mi aveva indicato Leicester Square come “ your first picth”, fu un gruppo di barboni (o “trumps” che chiamar li si voglia), che sostavano assai spesso su delle panchine, disposte a cerchio, proprio al centro della piazza, di fronte alla mia postazione.

Le panchine erano disposte a ridosso di un’aiuola circolare dei cui fiori si prendeva cura Mary, una ragazza senza età, dai capelli scuri e radi, e dai denti neri e spezzati. Venni a sapere di lei, più in là, che da giovane era stata cameriera a Buckingham Palace e che l’avevano cacciata per il suo vizio di bere, o di rubare; o forse a causa di una gravidanza indesiderata; gli amici del suo gruppo la chiamavano scherzosamente “Queen Mary” o semplicemte “Queen”. Con lei ebbi dei contatti più frequenti, in quanto era ghiotta di gelati che io, quando mi era possibile, le passavo gratis, pregandola di non farne cenno con gli altri che pure, non di rado, per lo più da sobri, presero a farmi dei cenni di saluto passandomi accanto o in lontananza dalla loro “corte”.

Ad eccezione di Miss Rambling, un’anziana signora paralitica che si destreggiava con la sua carrozzella nel traffico londinese, meglio di una campionessa di gimkana, la quale era rigorosamente astemia, gli altri, compresa “The Queen”, erano dei forti bevitori; anzi bevevano alcolici al posto e più di ogni altra bevanda liquida, compresi acqua e latte. Non tutti erano peraltro giunti allo stadio terminale dell’alcolismo.

Max, per esempio, ci stava arrivando piano, piano ma inesorabilmente. Gli era sempre più difficile “agganciare” anche al Cafè Paris, da cui ritraeva la sua unica fonte di reddito.

Da giovane aveva assomigliato in maniera impressionante a Clark Gable e di quella originaria bellezza gli era rimasto in viso un alone lontano, contraddistinto dai baffetti neri, ancora ben curati e sottili, su un labbro vagamente sensuale. Ma quando faceva gruppo con i barboni, con la barba ispida sulle guancie rossiccie e gli abiti spiegazzati, sembrava più l’ombra di se stesso che quella del mito americano di celluloide cui si ispirava il suo personaggio. Max si era giocato alle corse, una ad una, tutte le proprietà ereditate dalla sua famiglia. Mi parlava spesso di corse di cavalli e talvolta, nel trasporto del suo raccontare, diceva con rabbia che ce l’avrebbe fatta a fare “hit”, ed a riscattare almeno una casetta di campagna, nel Galles, dove si sarebbe finalmente ritirato per una tranquilla e dolce vecchiaia.

Gli altri, per la maggior parte, erano però assai più malconci e trasandati. Capelli senza cura, faccia nera, di quel nero che solo la strada può dare; abiti sempre sporchi e sdruciti; pantaloni senza cinta e scarpe senza lacci, segni del loro frequente entrare ed uscire da luoghi di ricovero coatto, se non proprio delle reali galere inglesi.

Avevano sempre nelle mani o nelle tasche della giacca l’immancabile bottiglia di liquore o di vino, oppure, nei periodi di magra, di un intruglio che essi chiamavano “poonch”, “ Una roba”- mi disse una volta Joe, un ex-pugile suonato, – “ che quando la bevi, ti fa lo stesso effetto di un cazzotto nello stomaco!”.

Un altro che si distingueva dal gruppo era “Old Jerry”, un vecchietto che aveva lasciato una gamba nella seconda guerra mondiale e mostrava sul petto, fieramente, numerose decorazioni delle guerre imperiali britanniche. Mi salutava sempre allegramente ed era l’unico che beveva sempre e solo wiskey. Un giorno, dopo tanto che non lo si era visto in giro, mi disse che era fuggito dal “ricovero”, dove certi suoi parenti lo avevano fatto rinchiudere. Ai miei perché incuriositi aveva risposto che gli rubavano tutti i soldi della pensione e non gli lasciavano neanche gli spiccioli per un goccio di wiskey e che lui, finchè campava, voleva vivere libero di fare ciò che gli andava, dopo tante che ne aveva viste e scampate; e toccandosi significativamente la protesi, claudicante ma allegro, raggiunse i suoi compagni che già lo chiamavano dalle panchine di fronte, pregustando in gola una sorsata di wiskey di marca.


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