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I Signori della Strada – XXXI

Da Albix

londra 27Durante questa festosa appendice estiva, così come era stato, d’altronde,  anche in passato, le panchine attorno all’aiuola centrale di Leicester Square, rimasero sempre esclusivo appannaggio di Mary e della sua corte di nobili decaduti.

Non so come, né perché, ma quelle due panchine o erano occupate da loro o non vi era nessuno. Solo raramente qualche passante vi sostava un po’ ma per cambiare subito posto; e poteva anche esserci il pienone negli altri sedili e nelle altre panchine del piccolo parco attraverso il quale si scendeva giù fino a Charing Cross, ma la “ piazzetta reale” si salvava sempre, come se vi fosse un invisibile guardiano ad occuparsi di cacciare via gli indesiderati ospiti, speranzoso e voglioso di tenere libere le panchine per i suoi favoriti.

Loro, i favoriti, adesso che il sole era tornato ad asciugare le panchine umide, si vedevano sempre più spesso. C’erano di nuovo tutti: Mary, Colbey, Old Jerry, sempre allegro e sorridente, Joe, più suonato che mai, dopo la sua solita  gragnuola di pugni scaricata nell’aria,  aveva preso a dichiarasi campione del mondo, anche se a volte finiva al tappeto, messo k.o. dal suo stesso scarso senso dell’equilibrio, insieme ad altre vecchie e nuove conoscenze.

Si vedeva più spesso anche Max, che sembrava anch’egli rifiorito con il risplendere del sole, e un giorno era passato davanti alla mia postazione con al braccio una signora che doveva essere una gran riccona, ingioiellata e stagionata com’era, e mi aveva strizzato l’occhietto, ammiccando come per dire: “ Hai visto che me la passo bene?” Né mancava all’appuntamento Miss Rambling, se possibile ancora più sguaiata e ridanciana che intonava a squarciagola, in  un cadenzato e orecchiabile ritmo, una canzoncina di cui riuscivo ad afferrare solo le prime parole della strofa iniziale: “I want a banana, I want a banana!”, perché i frizzi e i lazzi   della restante compagnia, che sicuramente arrivavano sino a Piccadilly Circus, mi impedivano di sentire il seguito, sempre ammesso che ce ne fosse stato davvero uno.

Con loro, da un po’ di tempo, si vedeva un tipo alto e magro, con il naso aquilino che preso da solo poteva anche sembrare un uomo semplicemente trasandato, con la sua camicia sotto la giacca, le scarpe con i lacci ed i pantaloni regolarmente tenuti su da una cinghia in cuoio. Insomma, un inglese come tanti, incurante delle apparenze, più preoccupato di investire i propri risparmi nelle “Public Houses” londinesi piuttosto che di farsi la barba al mattino o di acquistarsi un abito nuovo.

Un giorno mi si accosta e messomisi di fronte, senza essere visto da alcuno, mi allunga due musicassette ancora incellofanate, chiedendomi in cambio un’offerta qualsiasi.

Gli allungo mezza sterlina, senza accettare i nastri, ringraziandolo e dicendogli che non saprei dove ascoltarli, anche se il  motivo vero è che ne sospetto la provenienza furtiva e non voglio rogne.

Un po’ di giorni più tardi lo rivedo rasato di tutto punto e tirato a lucido. Mi allunga al volo due nastri musicali, dicendomi di accettarli perché fanno parte della sua collezione privata. Accetta in cambio solo un gelato, che gli offro con l’aggiunta di una barretta di cioccolato.

Si mette di fianco alla macchina, esternamente al locale, tira fuori il cioccolato dalla crema e golosamente se lo ficca in bocca; quando inizia a parlare ha appena finito di deglutirla:

-“ Il mio nome è Eddie; ho studiato Economia qui a Londra e dopo gli studi mi sono impiegato in una grossa ditta di import-export. Ero molto ambizioso ed oltre ai soldi mi interessava fare carriera; così accettai il trasferimento a Boston, negli States, incoraggiato dalla mia fidanzata Susan, con la quale ci sposammo prima di partire . Boston è una città meravigliosa, la conosci?”

No, non ci sono mai stato ma ne ho sentito parlare. Vai avanti, gli faccio io accendendo la sua e la mia sigaretta.

-“ Per diversi anni fummo felici. I miei colleghi americani erano entusiasti di noi; figli della vecchia Inghilterra, ci fecero conoscere quanto di meglio c’era a Boston e dintorni. Ed io lavoravo, oh, se lavoravo! Al venerdì ero a pezzi ma per il lunedì successivo riuscivo a rimettermi in sesto e ricominciavo più determinato di prima. Piano, piano, però, qualche cosa cominciò a mutare dentro di me: in ufficio, talvolta, mi sentivo mancare l’aria e il cuore mi si stringeva in petto, cominciando a battere all’impazzata. Cominciai a dare segni di insofferenza verso il trillo del telefono, il ticchettìo della macchina da scrivere, il ronzio delle stampanti. Il medico di famiglia mi disse che avevo bisogno di riposo e che tutto, anche la subentrata mancanza di stimoli sessuali, nella quale ero lentamente ma inesorabilmente scivolato, dipendeva da eccesso di affaticamento nervoso.

-“Mi misero a riposo e cominciai una nuova vita: andavo in giro per la città, senza    meta alcuna, e talvolta tornavo a casa sbronzo e pesto, senza neppure ricordare come.Poco a poco, però, mi ripresi e mi sembrò di stare meglio. Dietro consiglio di mia moglie e di certi miei amici che non vedevano l’ora di riaccogliermi tra loro, rientrai a lavoro.

“Tutto sembrava dimenticato, come un incubo lontano. Ma dopo qualche mese le mie turbe ricominciarono, anche se stavolta non mi colsero impreparato. Un giorno, all’ora di pranzo, anzicchè andare al solito “wine bar” per il lunch, volli tornare a casa, deciso a convincere mia moglie ad andarcene ed a ricominciare una nuova vita    in una dimensione più umana e naturale, magari nei mari del sud o in Africa o di nuovo in Inghilterra, ma lontano da quei ritmi ossessivi e alienati, mi capisci?

”Entrando in casa avvertii subito qualcosa di strano. Udii dei rumori inconfondibili provenire dalla camera da letto.  Mi accostai lentamente e silenziosamennte, con il cuore in tumulto: mia moglie giaceva a letto con un altro uomo. Non c’è bisogno che ti dica cosa stessero facendo, capisci?”

S’interruppe un attimo sghignazzando, e facendo scorrere velocemente l’indice destro dentro l’indice ed il pollice della mano sinistra chiusi a cerchio ripetè, sempre sghignazzando: -” Do you know that?”

-“ Non si accorsero di me ed io rimasi impietrito per un lungo, angosciante istante, incapace di prendere una qualsiasi decisione. Non fu certo gelosia quella che provai menttre la vedevo guaire di piacere sotto il corpo di quell’altro uomo; e neppure biasimo morale; dopotutto l’avevo trascurata parecchio ultimamente, anche se avrei preferito ovviamente che ne avessimo parlato, di questi suoi problemi, ma tant’è! Ho capito più da quella scena di quanto non mi abbiano insegnato sette anni di matrimonio. I nostri rapporti, mi resi conto, erano sempre stati come le nostre scopate: formali e banali, abitudinarie e stereotipate. Il classico rapporto di coppia che si allarga su una vasta superficie per anni, senza mai andare veramente a fondo. Un rapporto fondato sulle stesse ipocrisie e inibizioni sulle quali è fondata l’educazione che ci viene impartita allo scopo di forgiarci per il nostro ruolo sociale, lo capisci? Insomma, per farla breve   sono andato via, silenzioso com’ero arrivato. E da quel giorno non l’ho più rivista.

-”Me ne  andai a vivere nell’ovest, dall’altra parte degli states, nella città dove vive la gente più vera e più bella di tutta l’America: San Francisco.Lì conoscevo un amico, un poeta conosciuto per caso durante il mio pellegrinaggio psichico. Ho passato una gran bella estate ad Haigth Highbury, a San Francisco: si cantava e si ballava per le strade, si recitava, si dibatteva, si fumava, si beveva e si gioiva in barba a tutto e a tutti, in piena libertà.

“La mia avventura americana si concluse a Chicago, dove nel frattempo mi ero trasferito, nel 1969. In seguito ai disordini tra polizia e manifestanti,  verificatisi nel corso della marcia di protesta che si svolse in quella città proprio in quell’anno, venni arrestato e rimpatriato come ospite indesiderato. Così me ne tornai in Inghilterra. Ma intanto avevo già maturato la piena coscienza del mio essere, della società e del sistema che ci opprime. Ho capito che il nostro sistema assorbe tutte le nostre energie nel lavoro, nella produzione, ed era stato questo il motivo principale che aveva causato la mia malattia.

-“Avvicinandomi in quegli anni al concetto assoluto di libertà, diagnosticai che il mio male era stato originato dalle repressioni psicologiche e sociali in cui avevo vissuto la mia piatta esistenza. Capii perciò che dovevo liberare la mia mente e lasciarla fluttuare; dovevo vivere con più naturalezza, ricercando i significati più profondi della vita, senza fondarla su formule e regole che valgono solo per la tacita, mutua rassegnazione della gente………”

A quel punto del racconto, un grido lo interruppe da lontano. Era Colbey, che attirava la sua attenzione,  mostrandogli  trionfante una bottiglia di wiskey fiammante, lucida e sigillata.

-“ Dai, Eddie, dagli tu il primo colpo!” – lo invitò Colbey  porgendogli la bottiglia.

Eddie la prese e gli chiese se poteva lasciare a me il grande onore. Ma nonostante il suo entusiastico consenso, io mi schermii cortesemente, aggravando, per scusarmi, i miei piccoli problemi di fegato, ma in realtà preoccupato davvero che il mio laboratorio chimico privato si trovasse costretto, a quell’ora del mattino e praticamente digiuno, a sopportare un super alcolico di quella portata.

Lo sguardo e le poche parole di Colbey, espressero un grande, sincero rammarico per il mio fegato debole, che mi rendeva un uomo veramente  sfortunato.

Con due avide sorsate a testa, la bottiglia è già vuota a metà. Eddie mi fa un cenno caloroso di saluto, dicendomi di dimenticarmi della sua storia, forse rattristato da quei pesanti ricordi, o forse desideroso  di dimenticare.

Si allontanarono abbracciati, sbarellando e barcollando lievemente, intonando un canto che altre volte avevo colto sulle labbra di qualche beone del loro giro, le cui sole parole che ricordo suonavano pressappoco così:

“ Water is for flowers

And wiskey is for men

I don’t care what else

Goes on in the world

Baby if you want me

Just you come along

Water is for flowers

Wiskey is for men!”

……continua……..


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