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“Tutti noi concordiamo nel definire l’Alien di Ridley Scott come una pietra miliare nella cinematografia sci-fi/horror di ogni tempo ma quanti sanno che quel film deve molto all’epigono Terrore nello spazio firmato da Mario Bava nel 1965?” questo scrive Carla Arduini parlando del cinema di Mario Bava, maestro indiscusso del genere horror “made in Mare Nostrum”.Si potrebbe proseguire all’infinito con le citazioni, i richiami e i tributi che sono stati offerti al grande regista Ligure da registi del calibro di Scorsese e Joe Dante e altrettanto si potrebbe fare nell’elencare l’originalità degli effetti scenici e delle trovate cinematografiche che hanno infleunzato il genere nel corso degli anni successivi.Quella, invece, su cui ci concentreremo adesso è l’analisi di una delle sue pellicole più riuscite, realizzate con un budget più che modesto e che vede la partecipazione di un Boris Karloff in una delle sue più accattivanti interpretazioni: benvenuti a: “I tre volti della paura”.
EPISODIO 1: Il Telefono“Buonasera. Ho una notizia che vi delizierà: l’omicidio non è morto. Non mi riferisco a quelli che sbattono sulle prime pagine dei giornali. Quelli sono davvero di cattivo gusto. Mi riferisco a quegli squisiti omicidi che hanno un che di bizzarro e richiedono un’ingenuità diabolica per essere risolti. Quelli sono vivi e in ottima salute...” queste sono le parole introduttive di Alfred Hitchcock alla celeberrima pellicola Psycho, necessarie per introdurre il primo episodio che apre il film.Il primo elemento che affascina è sicuramente la scenografia fastosa del ricco appartamento della protagonista. Bava, con un budget così limitato, doveva lavorare molto di fantasia per creare scenari realistici con gli effetti di scena lasciatigli dai produttori della nuovissima casa cinematografica Galatea. L’immersione nella casa della protagonista: una ricca e piacente signora degli anni ’60, è completa, ed è proprio l’appartamento l’oggetto su cui si concentrerà l’attenzione dello spettatore. In questo episodio, Bava vuole costruire un “mini-noir” che sorprenda, che ubriachi l’attenzione e, senza volerlo, chiama in causa le storie del famoso scrittore di noir Cornell Woolrich, col suo assortimento di omicidi bizzarri e di personaggi ambigui. Una donna sola, un assassino fuori la porta, una persecuzione continua e persistente al telefono. Questi sono gli elementi che, mischiati sapientemente, realizzano le aspettative di Bava.
EPISODIO 2: IL VURDALAK
Bava pesca nel classico e, più precisamente dall’omonimo racconto “Il Vurdalak” di Tolstoji: una storia gotica a tinte fosche. Il Maestro pesca più volte nel suo repertorio fondali di cattedrali abbandonate e vedute di montagne boscose per portare lo spettatore nella dimensione dell’ignoto e dell’inquietante. La partecipazione di Boris Karloff nella parte del Vurdalak aggiunge un bagaglio di esperienza, a questo episodio, che gli altri due sicuramente non hanno. La sua straordinaria interpretazione cala automaticamente lo spettatore in quel tipo di dimensione di orrore metafisico che Hitchcock tiene molto bene a precisare nel famoso esempio de “la bomba nel cinema”. L’orrore vero nasce dall’indefinibile, dall’imprecisato. Il Vurdalak non è un vampiro che scimmiotta la chiostra aguzza di Christopher Lee di “Dracula”, ma è un essere umano in tutto e per tutto simile agli altri, animato dal desiderio di morte e di “rinascita vampirica”. Il capofamiglia, andato a uccidere il vampiro, ritorna a sua volta vampirizzato. La famiglia lo sospetta, se ne accorge. Il nuovo vampiro entra ed accarezza il nipotino più piccolo, cullandolo sulle ginocchia: l’orrore non è immediato come ne l’episodio de: Il Telefono, ma offre comunque degli inquietanti risvolti...
EPISODIO TRE: LA GOCCIA D’ACQUA
Questo episodio, tratto liberamente dal racconto omonimo di Checov è senz’altro il più sapientemente riuscito dei tre, nel quale orrore manifesto e orrore metafisico si mischiano in egual misura.Bava strizza l’occhio al gotico, ma con sensibilità. Certe scelte di regia che lo spettatore in un primo momento trova scontate, se non addirittura eccessive (come ad esempio il miagolare dei gatti nella casa della moribonda in questo episodio), acquistano un significato preciso solo successivamente (sono miagolii, oppure i gemiti convulsi della moribonda?). Ovviamente, la scelta non sfugge allo spettatore che si troverà costretto ad esaminare i dettagli di ogni scena e a chiedersi continuamente se una qualunque di quelle cose che vede avrà un ruolo cruciale all’interno della storia.In questo episodio si parla di un’orribile persecuzione dall’aldilà, talmente feroce nella sua forma che il film venne pesantemente censurato negli Stati Uniti e, le parti più scabrose, vennero tagliate e “reincollate” successivamente quando il pubblico statunitense dell’horror (ancora per la maggior parte adolescente) si arricchì del contributo degli adulti.Un’infermiera, svegliata di notte per assistere una moribonda, arriva nella sua casa quando ormai tutto è stato fatto, invano. La morta giace sul suo letto di trine, il volto contratto in un’orribile smorfia per la quale molti registi di oggi si chiederebbero se varrebbe la pena di introdurre nelle loro pellicole, tanto che è prossima a quelle di dolore intenso, di orrore puro, della realtà degli ospedali.Tutto ciò non impedisce all’infermiera di sottrarre un pesante anello dal dito della defunta, attirando la maledizione dello spirito che avrà, irrimediabilmente, il suo corso.Con questo episodio parrebbe chiusa la trilogia episodica, Bava aggiunge un sapiente uso del “metacinema” per chiudere in bellezza e, in qualche modo, stemperare l’angoscia che lo spettatore ha sentito accumularsi dentro di sè, sinistra e incalzante, nel corso della visione.