Forse un aggettivo appropriato per definire quello che è successo ieri a Roma è “sconcertante”.
È chiaro che l’uso della forza contro i dipendenti della Ast di Terni non è stato un’alzata d’ingegno di qualche singolo agente in fregola da judge Dredd, ma risponde a precisi ordini impartiti dall’alto: e lo sconcerto è dovuto al fatto che difficilmente i lavoratori a rischio possono esser fatti rientrare nella categoria “sovversivi”.
Diciamo che in linea di massima quando la piazza si agita è ai piani alti che bisogna porsi domande; e a maggior ragione quando ad agitarsi non sono esuberanti “antagonisti” ma angosciati padri di famiglia che nutrono giusti dubbi sulla stabilità del futuro loro e dei loro figli.
In Italia, oggi, pare che tutti — tranne Renzie e la sua claque — abbiano ben chiara la gravità della situazione e l’estrema difficoltà (per non dire l’impossibilità) che il Paese possa riemergere a breve dalla palude in cui sta affondando. E pare che tutti — tranne Alfano che sta studiando da chandala — abbiano capito che manganellare i lavoratori che protestano per avere lavoro e pane non è una pratica efficace né tantomeno raccomandabile: soprattutto per gli effetti sul medio periodo. (L’ultimo a non capirlo è stato lo zar Nicola II nel 1905, quando fece sparare sulla folla che chiedeva, appunto, pane e lavoro. Com’è andata poi a Ekaterinburg, tredici anni dopo, sta scritto sui libri di storia).
Eppure c’è mancato veramente poco che il diritto di resistenza figurasse ufficialmente nella nostra Costituzione. Sembra, però, che vi sia sotteso o che comunque vi si possa fare riferimento senza ledere in alcun modo la democraticissima carta costituzionale. Dovremmo tenerlo presente, e farlo sapere a chi ancora non lo sa. E poi, magari, farne buon uso.
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Vicenda sofferta, quella del diritto di resistenza nella storia della Repubblica italiana — nel corso dei lavori per l’elaborazione della prima parte della Costituzione, il 5 dicembre 1946 la Sottocommissione incaricata inserì nel Progetto di Costituzione, al 2° comma dell’art. 50, la seguente disposizione: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Proposta dal democristiano Giuseppe Dossetti e dal demolaburista Cevolotto, la disposizione era manifestamente ispirata all’art. 21 della Costituzione francese del 1946: «Qualora il governo violi la libertà ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza, sotto ogni forma, è il più sacro dei diritti ed il più imperioso dei doveri». Ma nel maggio 1947, quando il Progetto di Costituzione venne discusso dall’Assemblea Costituente in seduta plenaria, alcuni deputati si opposero all’inserimento della norma; e così nel dicembre dello stesso anno, quando si votò il testo dell’art. 54 («Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge»), sostitutivo dell’art. 50 del Progetto, il diritto di resistenza risultò soppresso, nonostante il voto favorevole di comunisti, socialisti e autonomisti. Non è irragionevole pensare che sull’esito del voto influisse una certa apprensione motivata da un vizio di interpretazione del concetto di resistenza, confuso con quello di rivoluzione e suggerito dalle recenti vicende del Paese: tra i due termini, infatti, c’è una profonda differenza — la rivoluzione è sovversiva, cioè tende al rovesciamento del regime politico vigente; invece la resistenza è restauratrice, cioè mira al recupero e alla conservazione del regime politico vigente ma percepito come snaturato. Dunque la resistenza si configura a buon diritto come strumento di garanzia per l’esistenza del regime politico. (A questo punto, ci si potrebbe chiedere se l’antifascismo post 25 luglio 1943 non abbia fatto opera di rivoluzione piuttosto che di resistenza; e se in quest’ottica il termine di “resistenza” non vada invece applicato ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana — ma temo che finiremmo molto lontano). In ogni caso, con uno di quegli escamotages che hanno reso l’Italia famosa nel mondo si può affermare orgogliosamente che «Il diritto di resistenza è sostanzialmente (ed implicitamente) accolto dalla nostra Costituzione, in quanto rappresenta una estrinsecazione del principio della sovranità popolare, sancita dall’art. 1 della Costituzione e che quindi informa tutto il nostro Ordinamento giuridico». [preso da qui]