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Il 3% del deficit e l’incredibile storia della sua nascita

Creato il 27 novembre 2013 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Da quando il nostro Paese ha prima ratificato il Trattato di Maastricht nel 1992 e dopo aderito alla moneta unica dell’euro, si vede giustamente, o purtroppo, costretto a rispettare i parametri economici contenuti in questo trattato.

Uno dei parametri, sicuramente il più famoso, è quello che lega il tetto del deficit pubblico al 3% del PIL. Questo parametro è stato al centro di numerosi dibattiti e polemiche negli ultimi anni della crisi e indicato da molti economisti, soprattutto quelli di scuola Keynesiana, come un vero e proprio cappio per le tanto invocate misure sulla crescita. Lo stesso Alberto Alesina, uno degli economisti italiani più famosi e stimati all’estero, inventore, ahimè, della teoria sulla famigerata austerità espansiva che non ha fatto altro che peggiorare la situazione economica di molti Paesi europei, già nel 1997 in un articolo sul Corriere dove descriveva quelli che lui stesso definì i “Quattro grandi bluff dell’Unione Monetaria”, definiva la decisione del tetto al 3% invece che al 3,5 come una differenza senza alcun significato economico o persino contabile.

Tetto del deficit palla al piede

Il miglioramento di questo rapporto deficit/Pil nel nostro Paese, venne salutato come un segno d’imminente ripresa e di risulatato degli enormi sacrifici fatti dagli italiani. Ricorderete sicuramente pochi mesi fa, il Presidente del Consiglio Enrico Letta esultare con un post su Twitter, per l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione che il nostro Paese subì da parte dell’UE.

Purtroppo l’argomento è recentemente ritornato al centro della cronaca. Poche settimane fa il Commissario Europeo agli affari economici, Olli Rehn, ha ripreso formalmente il nostro governo chiedendo un maggior consolidamento dei nostri conti pubblici, pronosticando una chiusura del 2013 con il ritorno del rapporto deficit/Pil al 3% rispetto al precedente 2,9%. Anche il Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha dichiarato che questo tetto congela la possibilità di effettuare investimenti per la crescita.

Il quando e come ci sia stato imposto questo tetto del 3% lo sappiamo, il Trattato di Maastricht, ma i retroscena di come nasca questa precisa percentuale e su quali studi essa si basi erano fino a poco tempo fa ignoti.

Li svela un articolo pubblicato sul sito del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeinen Zeitung

Il percorso che ha portato alla nascita del criterio, inizia con un funzionario di basso livello del Ministero delle finanze del governo francese nei primi anni ottanta: Guy Abeille. Nel 1981 i socialisti, guidati da François Mitterand, erano da poco riusciti a conquistare l’Eliseo e i cittadini riponevano grandi speranze date le promesse elettorali. In un anno il deficit pubblico si gonfiò a dismisura, passando da 50 a 95 miliardi di franchi e il Mitterand sapeva che doveva mettere un freno e trovare un modo per rimettere sotto controllo le spese.

Affidò l’incarico ad un uomo che considerava affidabile: Pierre Bilger, l’allora vice direttore del dipartimento del bilancio al Ministero delle Finanze. Il Presidente avrebbe bisogno “di una sorta di regola, qualcosa di facile, che assomigli al risultato di una profonda competenza economica”, diceva Bilger – e serve subito. Il vice direttore chiamò ad occuparsi di questa regola, oltre al già citato Abeille, Roland de Villepen, cugino del futuro Primo Ministro Dominique de Villepen. La scelta non fu casuale, entrambi i funzionari avevano formato la loro conoscenza economica, molto matematica, frequentando in passato l’ENSAE.

Il sito del quotidiano tedesco riporta la ricostruzione della fatidica scelta del parametro: “I due francesi evitarono di fare dei calcoli matematici in puro stile economico. Una sera (“era già notte”, ricorda Abeille) i due concordarono che come parametro di riferimento bisognava utilizzare il PIL, perché poteva essere compreso da chiunque. Anche il numero fu trovato rapidamente: “Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2.6 % del PIL. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3%. Senza un fondamento scientifico, era nato un criterio di analisi economica che in seguito avrebbe fatto il giro del mondo. “Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi teorica”, ricorda Abeille.”.

Inviarono la loro proposta al allora Ministro delle finanze Laurent Fabius, oggi Ministro degli Esteri, che dopo averla giudicata positivamente la passò al Presidente Mitterand che annunciò la nuova linea politica il 9 giugno del 1982. Da quel momento in poi il Governo francese riuscì a restare entro il limite autoimposto, con solo un paio di eccezioni nel 1986 e qualche anno dei primi anni 90.

Arrivati a ridosso della data della conferenza di Maastricht nel 1991, i negoziati per il trattato erano ad un punto morto. Per sbloccare la situazione l’allora Direttore del Tesoro Jean-Claude Trichet e futuro presidente della BCE mette allora sul tavolo dei negoziati la regola del 3% (che questa volta dovrebbe includere tutti gli enti locali e i fondi di previdenza). “La Francia ha avuto delle ottime esperienze, la regola è semplice e comprensibile per tutti”, dichiarò Trichet alla Frankfurter Allgemeinen Zeitung. Trichet convinse i funzionari tedeschi che volevano imporre una regola ancor più restrittiva, deficit massimo pari al livello degli investimenti pubblici effettuati, riuscendo anche nell’impresa di fornire un ragionamento economico poi ripreso anche dall’allora Ministro delle finanze tedesco Theo Waigel: “Il livello di indebitamento europeo all’inizio degli anni ’90 era pari a circa il 60% del PIL. La crescita nominale era circa il 5%, e l’inflazione al 2%. In questa situazione i debiti potevano crescere al massimo di un 3 % all’anno, per non superare la soglia del 60%”

Lo stesso Trichet ha poi dovuto ammettere che l’eccessivo ottimismo riguardo la crescita del Pil al 5% fu un errore. Nonostante questo, la regola aurea, dopo l’approvazione al Trattato di Maastricht, venne ripresa e messa in pratica anche in altri stati del mondo come il Canada e l’Indonesia.

Stendendo un velo pietoso sulla mancanza di un fondamento scientifico alla base della regola del 3%, se questa, al momento della sua istituzione, poteva essere un baluardo di difesa contro la fame di spesa pubblica incontrollata di molti politici, oggi è una palla al piede che frena la crescita e favorisce la recessione. Non trovandoci più in tempi in cui la crescita nominale è del 5%, non capiamo quale logica sott’intenda l’impossibilità di cambiare, anche solo momentaneamente, questi parametri, in modo tale da garantire investimenti e far ripartire quella crescita economica di cui sempre più Paesi della zona euro hanno un disperato bisogno.


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