di
Giuseppe Casarrubea
Giovanni Falcone
Si è sempre negata l’esistenza del terzo livello di Cosa Nostra, quello istituzionale, dei politici e dei mandanti, interno al cuore dello Stato. Il centro nevralgico del comando, dove tutto inizia e tutto finisce. Fino a Falcone, almeno, e alle stragi che seguirono. In una famosa intervista rilasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani, e raccolta poi in un volume dal titolo “Cose di Cosa Nostra”, fu proprio il magistrato palermitano a sostenere che la mafia siciliana è un fenomeno “unico ed unitario”, che non può ammettere altro da sè.
Da allora si è avuta una qualche difficoltà a considerarla qualcosa di diverso dalle facce dei vari capi che l’hanno rappresentata, anche se le dichiarazioni di Masino Buscetta furono le prime, forse, a lasciare intravedere in lontananza l’ombra di un fantasma ancora più nascosto. E così ci siamo abituati a considerare queste facce vera realtà, non maschere greche.
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Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio le ombre dei generali sono tornate di nuovo a farsi sentire con la loro carica inventiva, il loro fermento. Ma questa volta abbiamo affinato l’orecchio ad altri rumori rispetto al vecchio tintinnar di sciabole. I generali hanno cominciato a evitare di marciare direttamente alla testa dei loro eserciti ribelli, di tramare vistosamente, di comparire in prima persona o farsi scovare dai giornali, con le mani nel sacco. Alcuni si sono liquefatti sotto il peso di Tangentopoli, altri hanno mutato pelle e sostanza con il crollo del muro di Berlino.
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Col senno del poi molte cose del passato ci affiorano ora in mente illuminandolo di una luce che prima non aveva. Le vicende delle stragi di Capaci e di via D’Amelio disvelano una storia più complessa di quella di Cosa Nostra. Tirano in ballo pezzi di Stato, servizi segreti, la natura vera del potere criminale. Un mostro antico, anticostituzionale e antidemocratico. Il dio pagano al quale furono sacrificate le vittime di Portella della Ginestra e degli assalti contro le Camere del Lavoro (1947).
Stefano Bontate
Anche il racconto dei pentiti si fa diverso, come dimostra Enrico Bellavia nel suo recente “Un Uomo d’onore” (Bur, Rizzoli). A parlare sono ormai in tanti e non sono pochi i dati che confluiscono verso uno stesso punto. Tra i tanti pentiti c’è anche Francesco Di Carlo, capomafia di Altofonte. Dichiara di essere stato “amico del generale Giuseppe Santovito (capo del Sismi dal 1978 al 1981)” e che mafia e servizi “sono sempre andati a braccetto”. Dice persino di essere “stato testimone diretto di un incontro tra Bontade e Berlusconi”. Parla di Calvi e di Sindona, di “canali finanziari” che portano molto in alto; di mafiosi, come il padre dei fratelli Graviano che hanno partecipato a investimenti plurimiliardari e di una storia segnata anche dal ruolo dei fratelli Giovanni e Stefano Bontate capimafia di Santa Maria di Gesù, “vicini a Marcello dell’Utri”, fondatore di Forza Italia (Il Venerdì di la Repubblica, 28 maggio 2010).
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La nostra mente, come la memoria di cui si serve, è uno dei più grandi misteri dell’universo inesplorato. Ci può tirare brutti scherzi, ma può anche consegnarci frammenti significativi di una realtà che altrimenti ci sfugge per sempre. Nel nostro caso le stragi alle quali abbiamo accennato, come alcuni episodi che le anticipano (l’attentato dell’Addaura, gli omicidi di Costa, Terranova, Mattarella e Pio La Torre, ad esempio) dimostrano la vera natura della mafia, il suo essere sì un fenomeno “unico”, ma anche trinitario nella sua organicità più profonda. Una combinazione di pezzi dello Stato, Servizi segreti e criminalità saldamente legati tra di loro e assolutamente inscindibili. E’ sempre stato così. La mafia non è mai stata un corpo separato ma uno degli elementi organici della “Santissima trinità”.
Basta leggere “L’agenda nera della seconda Repubblica”, di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza uscita in questi giorni per Chiaralettere. Vi si parla di una cronologia eloquente. Il pentito Salvatore Cancemi, il 1° novembre 1993 racconta al pm di Caltanissetta che a metà maggio 1992 aveva parlato con il boss della Noce Raffaele Ganci di un imminente attentato a Falcone. La decisione era stata presa da Totò Riina durante un incontro con “persone molto importanti”. Il 2 novembre ’93, durante la trasmissione di Maurizio Costanzo “Uno contro tutti”, Vittorio Sgarbi, interrompe Enrico Mentana affermando che Berlusconi ha già un partito politico. A novembre dell’Utri incontra per almeno due volte Vittorio Mangano a Milano. Di che cosa discutono i due? Quello che si sa è che in quei giorni Bernardo Provenzano, stando alle dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, “fa sapere agli altri capimafia di avere trovato in Dell’Utri, un nuovo referente ‘affidabile’ ”.
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Carlo Azeglio Ciampi
La pesantezza del clima politico e sociale in quei giorni è testimoniata da personalità di primo piano del mondo istituzionale. Ciampi afferma: “Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l’esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse: ‘Carlo, non capisco cosa sta succedendo…’, ma non fece in tempo a finire, perchè cadde la linea. Io richiamai subito ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo oggi: ebbi pausa che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi…” (Massimo Giannini, “Quei giorni terribili del ’92 a un passo dal colpo di Stato”, la Repubblica, 29 maggio 2010).
C’è un’ipotesi in merito a ciò che stava succedendo allora. E la formula il procuratore Grasso: “gli attentati – scrive Giannini – servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una ‘nuova entità politica’ che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di mani pulite. Un ‘aggregato imprenditoriale e politico’ che doveva conservare la situazione esistente. Quell’entità, quell’aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia”.
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Oscar Luigi Scalfaro
Altro testimone di rilievo è l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, del quale ci riecheggiano ancora nelle orecchie le parole di condanna che in quei primi giorni di novembre ebbe ad esprimere contro quanti all’interno delle istituzioni spingevano per “una lenta distruzione dello Stato”. Un gioco contro il quale Scalfaro urlò ripetutamente il suo “Io non ci sto”. Ce lo ricordiamo tutti questo grido, almeno quelli che non abbiamo ancora perduto la memoria. Gli italiani increduli le poterono sentire in diretta televisiva sulle reti pubbliche e private ( “Novembre 1993. Nuovi partiti all’ombra di un golpe”, in “Il Fatto quotidiano”, 30 maggio 2010). E Ciampi, a ruota: “In quelle settimane davvero si temeva un colpo di Stato. I treni non funzionavano, i telefoni erano spesso scollegati. Lo ammetto: io temetti il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato”.
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Doveva essere la fine del 1993 e andavo spesso a Palermo, spostandomi dal mio paese, Partinico. Tangentopoli si era pienamente dispiegata e l’Italia sembrava immersa in una crisi di valori e del suo sistema politico, senza precedenti. In una di quelle giornate, affossate nel grigiore e nel pessimismo, ricordo che lessi con qualche sollievo una gigantografia che campeggiava nella rotonda vicina al Motel Agip. Non c’era nulla di particolare nel manifesto tranne una figura, in posizione predominante: un neonato. Tutte le volte che passavo da quel punto la guardavo e confesso che tiravo un sospiro di sollievo, pensando che non tutto era perduto. Era un’immagine saggiamente collocata che incuteva ottimismo, quando tutto sembrava andare in malora. Poi ad essa si affiancò una scritta. Semplice. Di due parole brevi: “E’ nato”. Non so quanto tempo trascorse tra l’immagine solitaria e l’abbinamento ad essa dello scritto. Ma il messaggio era chiaro e aveva seguito un perfetto manuale di psicologia di massa. Aveva creato prima l’attesa. Poi il dato comunicativo esplicito o un’allusione a qualcos’altro. Cosa? Un’associazione? Un’impresa? Un partito politico?
Rimasi sorpreso, in seguito, nel leggere sui muri di Palermo e negli spazi destinati alla pubblicità del viale della Regione che ero costretto ad attraversare venendo dall’autostrada, dei manifesti che si riferivano a uno slogan mai prima visto: Forza Italia. Per cui il collegamento che adesso mi corre istantaneo alla mente è la nascita di questo partito con l’attesa di tale evento suggerita e anticipata dal simbolo del neonato visto nella gigantografia. Nessuno si sarebbe aspettato che quel partito silente, che non compariva neanche nel confronto pubblico tra i candidati alle elezioni politiche del 27 marzo 1994, avrebbe sconvolto la geografia politica dell’Italia.
Si chiudeva di fatto la storia di un secolo. Breve e tragico.
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Tutto comincia esattamente cent’anni prima.
Emanuele Notarbartolo
Il primo febbraio 1893 un signore ben vestito con la faccia di un galatuomo viaggia in una carrozza ferroviaria lungo la linea Termini Imerese-Trabia. E’ visibilmente preoccupato e anche se guarda fuori dal finestrino il paesaggio freddo e piovoso, è con la testa altrove, sovrappensiero. Forse ha dei presentimenti, forse sa che fare il direttore di una grossa banca come il Banco di Sicilia non è come fare un qualsiasi mestiere. Quello infatti non è solo un istituto di credito, è la cassa per operazioni politico-finanziarie cui attingono politici e membri del governo. Uno degli elementi distorti di quella rete bancaria nazionale di cui fa parte anche la Banca romana i cui illeciti sono denunciati, nel dicembre 1892, da Napoleone Colajanni.
Ma Palermo non è Roma e ciò che nella capitale d’Italia ha un senso, nell’isola ne acquista un altro, più insidioso, più violento. Ne avevano parlato diffusamente nella loro “Inchiesta in Sicilia” Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due moderati toscanacci che per primi nel 1876 erano venuti a ficcare il naso nelle cose siciliane, di cui forse avevano sentito parlare attraverso i resoconti di alcuni viaggiatori stranieri. Avevano riferito di banditi e malandrini, baroni e servi della gleba, paesi condannati all’isolamento e alla miseria e sindaci corrotti, gabelloti e feudatari disposti a tutto pur di non perdere nulla delle loro proprietà abbandonate e delle loro abitudini.
Strani pensieri perciò si agitano nella testa di quel signore per bene. Si chiama Emanuele Notarbartolo e di mestiere fa proprio il direttore del Banco di Sicilia. E’ ancora preso dalle sue preoccupazioni quando due facce losche gli si avvicinano e, dopo avergli inferto ventisette pugnalate, scendono indisturbate alla prima fermata e se ne vanno a casa, come dopo una gita fuori porta, una scampagnata tra amici.
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Un caso che ci ricorda il delitto Ambrosoli, i muri che separano ancora oggi il governo del malaffare dal rispetto delle regole, i criminali dalle persone per bene. Una storia vecchia e attuale. Di un uomo normale che muore perchè fa il suo dovere e non accetta i ricatti.
Il processo di questo primo caso eclatante di mafia italiana e siciliana richiama altre storie, l’atto di nascita dello Stato, del suo primo parlamento, dei suoi primi governi. Rinvia anche a un senso dell’etica ancora saldo nei pubblici amministratori, che come Notarbartolo si sono formati nella cultura europea, britannica e parigina, ma anche nell’infuocata epopea garibaldina, nel patriottismo onesto e disposto al sacrificio, nel senso autentico della Nazione e della Patria.
Del delitto è accusato, quale mandante, un deputato del parlamento, l’onorevole Raffaele Palizzolo. La Camera dei deputati autorizza lo svolgimento del processo e il deputato ha prima una condanna (1901) e poi un’assoluzione per insufficienza di prove (1905). Gattopardescamente le cose tornano come prima con i soliti cortigiani sempre pronti a leccare i piedi ai potenti, anche se criminali. In testa a tutti lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè, presidente del Comitato “Pro Palizzolo”. Questa è stata anche la Sicilia: una terra che ha dato i natali agli affossatori della sua libertà e del suo sviluppo.
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Correndo a volo d’uccello possiamo dire che mafia e antimafia hanno visto un periodo fondativo tra l’uccisione di Notarbartolo e di Bernardino Verro (1916) e la strage di Portella della Ginestra. Un successivo cinquantennio che si chiude con le stragi del 1992-‘93. Nella fase attuale Cosa Nostra si è ulteriormente connaturata allo Stato, rendendo quasi superflua la manovalanza armata, l’affidamento a terzi di compiti che possono essere assolti dal potere, politico o finanziario che sia. La trinità ha eliminato tutto il ciarpame che le impediva molti margini di manovra. Vanificando il pentitismo ha internalizzato le funzioni esterne del vecchio controllo armato della società e di se stesso.
La parabola ultrasecolare comincia da una preistoria che ne disvela l’originaria natura antipopolare, le lotte organizzate del mondo sindacale e contadino, gli intrecci di criminalità e statualità, il progressivo e attuale distacco dalla manovalanza terroristica dai livelli arcaici delle sue forme di militanza sul territorio.
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Per un lungo periodo di questa storia la magistratura ha nicchiato e le forze dell’ordine, complici della legge dell’omertà, hanno fatto gli interessi dei palazzi. Il loro orientamento è stata la finzione della legge; la sua negazione di fatto. Abbiamo avuto decenni bui. Nessuno può ora garantire che l’attuale fase segni il tracollo di un fenomeno “naturale e umano” che ottimisticamente Falcone volle connotare come realtà organica e deperibile.
La strage di Capaci
Un dato caratteristico di tutto questo percorso è la guerra dichiarata contro la sinistra. Un pretesto di copertura dei livelli di degenerazione del capitalismo finanziario visceralmente legato alle diverse forme di privatizzazione dello Stato e delle sue funzioni. Forme che prescindono dalla politica ma sempre disponibili a utilizzare il terrorismo eversivo come arma di ricatto. Una sorta di nuovo blocco istituzionale e criminale contro l’invadenza democratica, le pressioni della partecipazione popolare.
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Giustamente, pertanto, il procuratore antimafia Piero Grasso ha recentemente dichiarato: “Nel ’93 Cosa Nostra ha avuto in subappalto una vera e propria strategia della tensione”. E, a proposito delle stragi ha meglio spiegato che esse “furono organizzate anche da pezzi dello Stato per aiutare una nuova forza politica”. E Veltroni precisa: “Non erano sicuramente stragi di mafia. Anzi, sulla base delle inchieste, non si dovrebbero neppure più chiamarle in questo modo. Sono stragi di un anti Stato, che era o forse è annidato dentro e contro lo Stato”. La politica fatta con i forse è doverosa, ma la storia è inutile se fatta con gli avverbi del dubbio. E’ più ragionevole attenersi ai dati di fatto. Veltroni, che pare abbia riscoperto il senso della vista, dopo un’operazione di cataratta, alla domanda di Curzio Maltese che gli chiede se per caso quello accaduto nel ’92-’93 possa essere definito un colpo di Stato risponde testualmente: “Insomma, parliamoci chiaro. Lei crede che Totò Riina fosse davvero il capo della mafia? Una mafia che fa girare 130 miliardi di euro all’anno? Lei crede che Riina o Provenzano avessero mai sentito parlare nella vita del Velabro e dei Georgofili? E’ pensabile che la mafia, con i suoi codici secolari, abbia adottato per la prima volta dopo Portella della Ginestra il linguaggio terroristico delle stragi senza una ragione forte, politica?” E dopo avere spiegato che quelli erano i giorni di Tangentopoli e della scomparsa dei vecchi partiti, precisa che si stava uscendo da quel “terremoto” con il governo Ciampi, insediatosi nell’aprile ’93. Seguirono a ruota l’attentato di Firenze, quelli di Milano e di Roma, e l’altro, per fortuna fallito, allo stadio Olimpico (la Repubblica, 28 maggio 2010).
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Non sappiamo se gli attentati del ’92-’93 fossero propedeutici a una strategia piduista e neogolpista. Certo è che non sono in pochi ad avere collegato quel clima di tensione con la paura di un colpo di Stato e che nella crisi generale segnata da questo biennio, si siano inserite forze mafiose connaturate allo Stato che da sempre avevano vigilato per evitare che l’Italia si spostasse verso forme sempre più avanzate di democrazia. Alla fine del ’93 si erano tenute le elezioni amministrative e la sinistra, espressa dalle forze progressiste aveva ottenuto un certo successo anche in aree marginali come Partinico e Montelepre dove da sempre c’era stato il dominio quasi ininterrotto della grande balena bianca. Dc e Psi erano entrati in una crisi irreversibile e non è fuori luogo ritenere che qualcuno stesse pensando a riempire il grande vuoto lasciato dallo scioglimento di questi due grandi partiti tradizionali. Giustamente, pertanto ,Lo Bianco e Rizza fanno notare che è proprio in questo frangente (12 novembre 1993) che a Parigi Angelo Codignoni riceve da Giulia Ceriani, collaboratrice dell’esperto di marketing Jean- Marie Floch un rapporto “per verificare lo spazio di una nuova formazione politica di centro-destra” ed è sempre in questo periodo che, secondo Giuffrè, Cosa nostra discute dell’imminente discesa in campo di Berlusconi.
L’impianto della propaganda di regime, la recente legge-bavaglio, la dittatura telecratica, le leggi ad personam, i violenti e inauditi attacchi alla magistratura e ai poteri dello Stato, il tentativo di smantellare la Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista, cos’altro sono se non gli effetti di un’operazione ormai dilagante che ha i connotati di un golpe condotto sotto gli effetti di un trattamento anestetico con tratti di peronismo?