Marco Candida, Il bisogno dei segreti (Las Vegas Edizioni, 2011)
Recensione di Manuela Giacchetta
E’ difficile prevedere il funzionamento di un cervello in certe circostanze, quali strade sceglierebbe, fra le tante possibili, in condizioni anomale. Se sai di morire, per esempio, all’improvviso hai qualcosa di irripetibile fra le mani: gli ultimi momenti della tua vita. Decidere come impiegarli diventa una faccenda piuttosto complessa.
Quello che mi piace di Candida, in secondo luogo – sì perché “il primo” lo dirò poi – è che non pone il minimo accento drammatico o tragico alla certezza di questa fine. Connie dovrà morire, siamo d’accordo, ma non è questo il punto. Il punto è: dato che Connie dovrà morire, e Connie questo lo sa, Connie decide di cambiare. Ma in peggio. Sceglie di distruggere le vite dei suoi amici e dei suoi conoscenti, in modo scientifico, umiliante, giocando sui loro segreti. Perché Connie, nel corso del tempo, ha raggranellato un vero e proprio “archivio di segreti”. Quelli degli altri, però. E decide di usarli tutti come moneta di scambio per comprarsi uno stato d’animo che forse l’aiuterà a gestire il proprio, di segreto.
Nella vita di ogni persona ci sono dei segreti e molto spesso sono questi segreti che rendono la vita di ogni persona diversa l’una dall’altra.
Il segreto diventa un bisogno per affermare la propria individualità. Una coperta contro cui raggomitolarsi, senza disagio, perché la si crede impenetrabile.
Ma nella pandemica tecnologia in cui siamo immersi ed esposti, proteggere la propria privacy diventa complicato, faticoso, quasi un tentativo ingenuo. Connie non fa che tirar via quella coperta con uno strattone, smascherando le fragilità di ognuno, trasformandole in vergogna e mortificazione.
L’autenticità dei personaggi arriva proprio attraverso la smisurata debolezza di fronte ai loro segreti trafugati.
E poi, in primo luogo, c’è da dire che Marco Candida rende tutto con un linguaggio fluido, che scivola quasi rasentando un suono delicato. E non lo si può spiegare troppo, perché certe sensazioni si vivono leggendo. Mi ha stupito, soprattutto, la morbidezza con cui si srotolano le frasi, che sono tutte lì a definire, invece, uno spazio aguzzo e imbarazzante.
Per dirla tutta, il modo di scrivere di Candida, assomiglia agli strati soffici di neve del North Dakota. Proprio quella, però, mica una neve a caso.
Il romanzo è un gioco di intrecci, di sovrapposizione fra presente e passato, di punti di vista. Come se più telecamere umane fossero puntante sulla storia per raccontare ognuna, dalla propria angolazione, la stessa realtà, che solo così diventa vera: nella sua completezza.
L’unica cosa che non mi è chiara, però, è come faccia la protagonista a leggere con tanta semplicità l’Ulisse di James Joyce.
Ma forse questa è tutta un’altra storia.