di Giuseppe Dentice e Francesco Trupia
Ha preso il via in Brasile la ventesima edizione dei campionati del mondo di calcio FIFA. Un evento importante e preparatorio all’altro (e forse più rilevante) appuntamento internazionale, ossia le Olimpiadi 2016 che si svolgeranno a Rio de Janeiro. Nonostante l’importanza mediatica, e in parte politica, dell’evento – data anche la prossimità delle elezioni presidenziali di ottobre – sono in tanti ormai in Brasile a percepire il campionato del mondo come un successo soltanto parziale. A giustificare tale atteggiamento è il mix di preoccupazione e di rabbia sociale per gli alti costi, i ritardi infrastrutturali e un’immagine – in parte distorta – diffusa dai media nazionali e internazionali che continuano a provocare un’ondata di proteste per le strade e le piazze delle città brasiliane. A manifestare sono un nutrito gruppo di soggetti appartenenti a diversi ceti sociali, tutti raccolti in una nuova classe media che, formatasi grazie alla crescita economica nazionale dell’ultimo decennio, deve fare i conti con i problemi quotidiani di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la settima potenza economica globale.
Di questo e di altri temi l’Osservatorio di Politica Internazionale di BloGlobal ha discusso con Lucia Capuzzi, giornalista della redazione Esteri di Avvenire, esperta di narcotraffico e America Latina e autrice di numerosi libri tra cui La frontiera immaginata (Franco Angeli, 2006); Haiti. Il silenzio infranto (Marietti, 2010), Adiós Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro (Lindau 2011), scritto con Nello Scavo, Colombia; La guerra (in)finita (Marietti, 2012), Coca rosso sangue (San Paolo, 2013).I Mondiali di calcio sono indubbiamente uno dei maggiori eventi sportivi e mediatici al mondo: come avvenuto per esempio per il Sudafrica quattro anni fa, questi rappresentano per il Brasile un’incredibile opportunità e una vetrina a livello internazionale. Ciononostante la stampa locale ha fatto notare come la manifestazione calcistica sia avvertita dalla popolazione più come un’occasione perduta che non come un reale successo del governo. Quanto può considerarsi vera questa affermazione?
«Ci sono due tragedie: non ottenere quel che si vuole e ottenerlo». Credo che questo paradosso di Oscar Wilde possa facilmente essere riferito al Brasile “da Copa”. I brasiliani hanno sognato a lungo di ospitare il Mundial ma l’avverarsi di questo desiderio ha determinato una frustrazione diffusa. Di certo, per le strade delle principali città brasiliane, si notano poche bandiere verde-oro appese e il consueto entusiasmo calcistico ha ceduto il posto a un senso di rabbia contro i costi faraonici della manifestazione. Per l’evento sono stati spesi 13,5 miliardi di dollari e la cifra rischia di lievitare ancora fino al record di 15, ben cinque in più rispetto alla somma preventivata. Oltretutto, l’allora Presidente Lula aveva garantito che tale cifra non sarebbe stata erogata dalle casse dello Stato. Una promessa clamorosamente smentita. La FIFA si sarebbe accontentata di 8 campi da calcio nuovi o ristrutturati. I governatori dei differenti Stati ne hanno preteso 12 in modo da favorire alcune aziende.
E’ come se la Copa avesse portato alla luce le contraddizioni brasiliane, insieme potenza emergente e Paese fragile e diseguale. Vero è che nel Paese del futebol tutto potrebbe cambiare con l’inizio della competizione e un buon risultato de la Seleçao.
Dallo scorso anno si susseguono incessantemente – non senza episodi di tensione – manifestazioni e proteste contro l’esecutivo di Dilma Rousseff accusato di non aver fatto abbastanza per soddisfare le reali esigenze della popolazione. Quali sono i fattori del diffuso malessere sociale? Chi sono i manifestanti e quali sono le loro richieste?
A manifestare è un universo complesso, formato dall’emergente classe media, ossia quei 40 milioni di ex poveri che i programmi sociali di Lula e Rousseff hanno fatto uscire dalle favelas. Accanto a questi ci sono una serie di movimenti sociali ansiosi di ritagliarsi un ruolo, oltre ovviamente alle frange radicali, principali protagoniste delle violenze. Da quando il Partito dei Lavoratori (PT) è salito al potere è riuscito a cooptare numerosi movimenti che hanno, però, perso autonomia e rilevanza. Cavalcare le proteste contro la Copa è un’occasione per acquisire nuovo protagonismo.
Le ragioni delle manifestazioni sono reali e sono l’effetto collaterale non previsto del boom brasiliano. Negli ultimi due decenni – e in particolare a partire dall’era Lula – il Paese ha visto uscire dalla povertà milioni di persone. I programmi sociali si sono, però, concentrati con l’ampliamento delle possibilità di consumo per i ceti più umili. Ora che questi ultimi – almeno in parte – hanno soddisfatto le necessità base e sono stati integrati nel “consumo nazionale” chiedono una cittadinanza piena. E quest’ultima può essere raggiunta solo se lo Stato fa un passo ulteriore e investe ingenti risorse nei canali che rendono reale e sostenibile nel tempo la mobilità sociale: scuola, istruzione e sanità.
Il fronte della protesta in Brasile raccoglie decine di movimenti e piccoli partiti. Qualora quest’ultimi dovessero, anche solo alcuni di loro, sostenere il Partido dos Trabalhadores, quanto rischia l’attuale Presidente Rousseff alle elezioni presidenziali del prossimo 4 ottobre?
Rousseff e il PT hanno finora goduto di una forte popolarità. Queste settimane, però, sono decisive per le prossime elezioni. L’ago della bilancia sarà, paradossalmente, l’esito calcistico della Copa. Se il Brasile dovesse perdere, il senso di frustrazione avrà di certo delle ripercussioni sul voto di ottobre. In caso vincesse, invece, è possibile che il nazionalismo brasiliano prevalga sulle critiche. Per quanto riguarda i movimenti sociali in prima linea nelle proteste, è importante sottolineare che la loro opposizione al PT non è necessariamente di lunga durata. Potrebbe al contrario, rappresentare una strategia per spingere Rousseff a fare delle concessioni. Del resto, i movimenti sanno che è più facile trattare con un governo del PT piuttosto che con uno di centro-destra.
Sebbene negli ultimi vent’anni il Brasile abbia compiuto enormi progressi socio-economici, le criticità che contraddistinguono l’attuale sistema permangono molteplici. In questi mesi si è spesso discusso dell’esistenza di “due Brasili”: uno sviluppato e l’altro poco inclusivo. Si può ancora parlare di un modello di sviluppo sostenibile brasiliano?
E’ indubbio che il Brasile abbia fatto enormi passi avanti. Basti pensare ai 40 milioni di persone uscite dalla povertà grazie ai programmi sociali dell’ultimo decennio come Bolsa Familha, Fome Zero, Luz para Todos. Il punto è che ora la democrazia brasiliana deve fare un ulteriore salto di qualità per rendere stabile nel tempo il proprio modello di sviluppo. Ovvero migliorare l’accesso e la fruibilità di alcuni settori chiave – sanità, istruzione, trasporti – per favorire un pieno godimento della cittadinanza. Detto ciò, non va dimenticato che il Brasile resta un esempio di successo di correzione delle diseguaglianze nel panorama latino-americano. Nessuno può aspettarsi che gli enormi problemi del Paese – uscito meno di 30 anni fa da una dittatura militare feroce – potessero essere risolti nel giro di poco tempo. Forse sul Brasile sono state eccessive le aspettative internazionali.
Questo delicato passaggio della vita politica e sociale del Brasile, e più in generale l’incrinamento dell’immagine di uno dei più importanti Paesi emergenti, quanto inciderà sugli equilibri sub-continentali e in che modo potrebbe ledere la leadership brasiliana in America Latina?
Il Brasile è senza dubbio uno dei perni dell’equilibrio latino-americano. Le proteste dello scorso anno e le polemiche sui Mondiali ne hanno offuscato la popolarità. Ciononostante, sembra difficile che il Brasile possa perdere la propria egemonia continentale. A facilitargli il compito è anche la mancanza di rivali credibili. Di certo non lo è il Venezuela di Maduro, impegnato con propri problemi interni. Non lo è il Messico di Peña Nieto, coccolato dalla stampa anglosassone, che, però, dimentica come il Paese sia devastato da una feroce guerra della droga. Non lo è neppure la Colombia di Santos, sulla quale aleggiano l’ombra sinistra del conflitto armato e il difficile processo di pacificazione nazionale. Né tantomeno può essere il Cile di Michelle Bachelet, troppo piccolo ed “eccezionale” per diventare un punto di riferimento nella regione. Alla fine, dunque, il modello-Brasile o meglio il modello di sviluppo Lula-Rousseff è quello, con tutte le evidenti carenze, che ha mostrato una maggiore efficacia nell’armonizzare crescita e sviluppo. Certo la strada da fare è ancora tanta. Le proteste e le manifestazioni possono, però, rappresentare un segno di crescita della coscienza civile nazionale. Chiedere una migliore democrazia è un segno di maturità da parte dei cittadini. Il punto è se queste manifestazioni riusciranno a svolgersi entro i confini propri della democrazia. Ovvero se non prenderanno il sopravvento le frange estremiste e non ci sarà (troppa) violenza.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
* Francesco Trupia è Dottore in Politica e Relazioni Internazionali (Università di Catania)
Photo Credit: AFP
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