In montagna il temporale fa paura, più che nelle campagne. Piove a scroscio da un paio d’ore, l’acqua cade giù come una maledizione. La notte avanza a strattoni, gli animali si spaventano. Poco prima del tramonto un’ombra sale verso la cima boscosa del monte, con un sacco sulle spalle. Avanza a fatica scavalcando le pietre che spuntano dal terreno muschioso, evitando cespugli e rocce. Cammina sotto le chiome di alberi altissimi e dritti, con i rami appesantiti dall’acqua. Un mare d’acqua, come non si vedeva da mesi. Il muschio, bagnato e caldo per il sole del giorno, manda attorno un odore di vita e di morte che stordisce. Le foglie marce sanno di orina e di putrefazione. I lampi aiutano il cammino, i boati dei tuoni si rincorrono nel cielo. Sulla collina di fronte un fulmine ha incendiato la cima di un albero, e la pioggia stenta a spegnere le fiamme. Un uccello canta disperato, lassù in alto, forse protetto da un grosso ramo.
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Nel cuore dell’Appenino toscano, in una notte scura di burrasca, quattro uomini si trovano in una taverna attorno a un tavolo e si stanno raccontando delle storie.
In un angolo in disparte dorme (o forse è lì fermo che ascolta) Frate Capestro, brigante leggendario. È lì solo e sembra riposare, forse perché quella locanda è zona franca, appartata e libera, lontano da tutto e da tutti.
I quattro uomini raccontano le loro storie di miseria, lotta, violenza, amore e Frate Capestro li ascolta immobile, coricato davanti al camino.
La scrittura di Marco Vichi lascia al lettore il gusto dell’immaginazione e suggerisce magiche connessioni, appassiona e coinvolge. Sembra davvero di essere lì, di sentire l’odore della legna bruciata, il sapore del vino, il suono della pioggia e dei tuoni, il calore della pipa nella mano.
Marco Vichi, Il brigante, Narratori della Fenice, Guanda 2015.