Ricordo la mia adolescenza, e nella mia adolescenza le rubriche sportive. E in una di quelle Francesco Scaratti – morto quest’estate, altro segno del tempo che passa – che diceva che il calcio moderno no, proprio non gli piaceva.
A ripensarci oggi, e a pensare che ancora adesso si dice che il calcio non è più lo stesso di una volta, vien da dire che forse era una lamentela di quelle che si fanno per non dire che non esistono più le mezze stagioni. Però, in effetti, qualcosa, in questi giorni, è cambiato davvero.
Perché Massimo Moratti non era, semplicemente, il presidente dell’Inter. Lui, il figlio del mitico Angelo Moratti, era l’ultima incarnazione di quel calcio “cardiaco” – fatto di cuore e passione, presidenti che si svenano per conti che non sempre tornano – che aveva iniziato poco a poco a spegnersi con la morte di Franco Sensi.
Ed è per una curiosa legge del contrappasso se, dopo l’epopea dei Sensi a Roma e dei Moratti a Milano, proprio i giallorossi e i nerazzurri sono finiti nelle mani di società straniere. Cioè: del capitale liquido, di quello che Zygmunt Bauman ha ritenuto di poter identificare come il segno distintivo della nostra era globalizzata.
Ora è del tutto chiaro. Non ci sono più mosche bianche. Non più un Sensi pronto a mettere all’asta le sue proprietà per la Roma, non più un Moratti disposto a spendere miliardi su miliardi per una squadra giunta al tetto d’Europa dopo anni e anni di mezze soddisfazioni o grandi delusioni.
Ma attenzione. La fine di quell’epoca non è causata dall’addio di Moratti e dall’arrivo degli indonesiani. È vero esattamente il contrario. È vero, cioè, che Moratti se n’è andato e sono arrivati gli indonesiani proprio perché un’epoca è finita.