(Il connubio fra la verità del soggetto e la verità dell’ essere)
di Adelio Valsecchi
Abitiamo un mondo e viviamo in una cultura dove si sono insinuati sentimenti di delusione verso la nostra intelligenza. Ci troviamo nelle condizioni di un segugio che non è più in grado di seguire la scia olfattiva della sua preda. E così l’uomo disorientato si abbandona all’inettitudine e vive il suo presente nell’inerzia del pensiero. In continua frenata. Come se avesse paura di vivere. Talvolta è confinato dalle consuetudini del tempo ai margini della vita, abbagliato dalla cultura dell’apparire, per incorrere poi in una sorta di regressione l’intellettiva. Negli anni ’60 era ammesso fra i precursori della civiltà Prometeo, autore del furto del fuoco agli dei, simbolo del primato del fare sull’essere. Il profeta degli anni ’70 era invece Sisifo condannato alla fatica inutile di spingere un masso fino alla vetta di una montagna per poi rotolare a valle. Egli era l’archetipo emblematico del pensiero negativo, del pensiero debole.
Per la fine del millennio, all’apice della cultura dominante campeggia Narciso che rappresenta bene il mito di un’ identità compiacente e ripiegata su se stessa.
Finché l’uomo del nostro tempo non avrà la consapevolezza che la sua intelligenza, per intrinseca forza interiore si porta al di là del puro fatto fisico, toccando il cuore della realtà che è l’essere, si sentirà sempre un erede incatenato ai mitici idoli e profondamente infelice.
L’ uomo ha l’esigenza di distese ben più vaste dei surrogati culturali che allentano la tensione al pensare. Solo l’apertura all’essere restituisce all’uomo la sua dimensione onnicomprensiva e libera. Perché non associamo le virtù della filosofia classica, sostanzialmente impegnata nella ricerca intorno all’essere con i valori della filosofia moderna sempre protesa verso la verità del soggetto?
E il ruolo della scienza? L’imponente diffusione del metodo scientifico ha messo al confino l’essere, orientando l’uomo allo studio dei fatti e il susseguente successo sul piano scientifico ( che viene, ben inteso, apprezzato) ha distolto quasi completamente l’attenzione dalla scienza dell’essere (dell’esistere). Ma la filosofia non ha cessato di progredire e accompagnare la scienza perché entrambe emergono dallo stesso ceppo originario : la ragione che unisce e non disattende la verità, riconciliando l’uomo alla realtà.
La scienza ha bisogno della filosofia per essere se stessa come la filosofia ha bisogno della scienza per un continuo aggiornamento sulla realtà del cosmo che è anch’essa rivelatrice dell’essere perché è là che sembra originarsi la materia di cui siamo costituiti.
Ma con un particolare accorgimento : entrambe devono perseguire il vero rispettando la propria identità e il proprio spazio d’azione. Sempre intorno al principio che ricerca scientifica e filosofica hanno l’onere di considerare l’uomo al centro della ribalta, rispettando la sua intelligenza, lontano dai sussulti dell’alterigia, conservando l’umiltà della saggezza, per non incorrere nel plauso facile per meriti non acquisiti.
Un esempio su tanti. Le neuroscienze che sull’onda dell’ottimismo si erano posti l’obiettivo di decifrare i misteri del nostro ingegno, oggi sembrano frenare il loro entusiasmo.
Ė verità consolidata che sia nota tutta la geografia della corteccia cerebrale, l’enorme quantità di “localizzazioni” di innumerevoli funzioni cerebrali che la ricerca scientifica ha scoperto.
Ma nonostante l’impegno profuso e tante sfide vinte, molti scienziati e filosofi, con inaspettata lucidità, rimarcano l’urgenza a “ripensare” un pò tutto del cervello, della mente e della psiche. Ė opportuno fare piazza pulita di tutte le ipotesi commutate, per ignavia, in verità assolute. Ė più onesto studiare tutto dalle fondamenta come se non avessimo mai saputo niente, per rispondere, senza vana arroganza, alla domanda : cos’è la coscienza, qual è il luogo in cui abita? Dove ha residenza? Ahimè noi ancora non lo sappiamo! Tale risposta ci porta a una riflessione. Forse è impellente l’esigenza di valicare la barriera del puro empirismo se vogliamo dare più lustro alla ragione e riprendere la via dell’essere con l’auspicio che un “ vero humus scientifico” si affianchi alla filosofia per meglio misurare la realtà e liberarla dai suoi misteri, qualora l’uomo avrà la ventura di svelarli.
Non si creda che il lemma “essere” qui sia inteso in senso platonico. Si può rivendicare, per meglio intenderci, un significato più realistico della parola “metafisica” che potrebbe essere interpretata ( nella sua radice etimologica) come un’evasione dalla realtà tangibile.
L “essere” che parafrasiamo non è una forma verbale. Intendiamo dire «l’esistere», “essere” inteso come ciò che vive, ciò che è, “essere” come persona, individuo, creatura. Un essere che non sta al di là del mondo, ma è semmai, ciò che rende mondo il mondo, evento l’evento, fenomeno il fenomeno. Per questo la metafisica è la scienza dell’esistere, perché l’esistere è la radice prima di ogni concretezza e non è mai recalcitrante alla verità.
La crisi di oggi nasce dall’illusione di vedere mille facce del mondo e della vita, senza avere la perizia di discernere in profondità le verità più vicine all’uomo che guarda l’alto e il basso come realtà condivise nel conforto dell’ottimismo realistico della ragione. Non si può superare il vallo dell’apatia esistenziale dal momento in cui si nega all’intelligenza la capacità di penetrare il cuore della realtà quando cioè si nega l’essenza stessa dell’ «intelligere». (vedere nella profondità delle cose).
Ma negare l’intelligenza è negare l’uomo, è privarlo di ciò che lo distingue come uomo. Il possesso intellettivo dell’esistere forma una sola cosa con l’uomo. Spogliarlo di questo corredo è sottrargli ciò che intimamente gli appartiene. Il mondo, in virtù dell’intelligenza è tutto interiore all’uomo; non viceversa. Se l’uomo è respinto dal mondo come se fosse incapace di comprenderlo, si disorienta adagiandosi in uno stato di sopore . Per dirla come Heidegger, smarrendo l’essere, l’uomo ha smarrito la sua patria. Ne soffre la distanza ed è colpito da trasalimenti di angoscia : «l’assenza della patria diviene così il destino del mondo».
Per il filosofo è questa la ragione dell’inquietudine che agita l’umanità in quanto coglie il fondamento primo di questa irrequietezza : l’alienazione ontologica sia dalla realtà che della sua “Giustificazione” (Dio). Ma si può dare un’interpretazione positiva a questa asserzione : si può stimare l’angoscia come nostalgia dell’essere, sentimento che non ci allontana né dalla realtà né dall’Assoluto perché si mostra come fiduciosa attesa di una nuova epifania dell’essere.
Perché non restauriamo il sapore esistenziale dell’esistere nella sua partecipazione al mondo?
Più ottimisticamente di Heidegger noi pensiamo che l’intelligenza umana sia rivelatrice dell’esistente. In essa e per essa tutta la realtà si rivela e si fa palesemente presente allo spirito umano. Per poter sfuggire al disorientamento possiamo tracciare due esplicite peculiarità intrinseche all’essere : la generosità e la speranza. La prima è un’ indomabile “tensione comunicativa” verso tutto il cosmo che non si compiace di sé, non ama la distanza dall’umanità, non è avara della sua presenza nel mondo. Ė pienezza che attende la nostra disponibilità, senza riserve. Assai più che angoscia, l’essere è “speranza” per l’uomo. E se è attesa, è attesa di uno sbocco che riconcilia ogni antilogia.
Proprio per questo l’essere nel suo “intelligere”non è un mistero ma si avvicina a una beatitudine interiore che soverchia ogni malessere e ci rende compartecipi di un sano ottimismo.
Da Cartesio sino a Heidegger è prevalente l’istanza di distinguere l’uomo dagli altri esistenti. Non importa che Cartesio ritenga il soggetto come “pensiero che pensa a se stesso” e che Heidegger presenti la “singolarità della situazione umana” come l’ “Esserci” (Dasein).
Il filosofo tedesco ha largamente palesato la sua sensibilità per i valori del soggetto (umani e personali) e fra tutti i pensatori ha sentito più forte il bisogno di arricchire la filosofia del soggetto con la filosofia dell’essere, nella persuasione che la verità dell’essere si salva nella verità del soggetto e questa nella verità dell’essere. Un alleanza che ha radici genuinamente cristiane o a quelle si richiama : l’uomo nella sua intimità, nella sua coscienza, è qualcosa di diverso dalle altre creature.
Ecco il grande compito della filosofia cristiana : avvicinare la verità dell’uomo alla verità dell’essere, per salvarlo dai bagliori dello scientismo e del tecnicismo. C’è l’urgenza,oggi, a umanizzare l’essere per caricarlo di significato e di senso.
Da quest’angolo di visuale la storia della filosofia, tutt’altro che contrapposta al Cristianesimo, appare piuttosto la sua eredità. Lo sviluppo della soggettività, cardine intorno a cui si muove il pensiero, si trasfigura in un’ovazione alla centralità della persona. Avvicinare la verità dell’essere alla verità dell’uomo preannuncia la volontà di collocare l’uomo “tecnologico” sul solido piedistallo dell’homo sapiens, arricchendolo di uno spazio interiore di cui ha assoluto bisogno. Tommaso d’Aquino, dotato di un così acuto senso dell’uomo, si compiacerebbe delle conquiste della filosofia che ha indagato sul piano della soggettività, perchè l’uomo è, dopo Dio, in quanto sua creatura, il secondo articolo del credo cristiano. L’audace sua affermazione : « Homo est quodammodo totum ens », (1) difficilmente nel medioevo avrebbe potuto svilupparsi in tutte le sue implicazioni.
Alla luce del pensiero contemporaneo invece, è possibile pensare un connubio tra l’essere e il soggetto, descrivendo una filosofia della persona di tale vigore e profondità da non temere il confronto con qualsiasi altra filosofia del soggetto. Ma Agostino da Ippona aveva preceduto l’Aquinate con intuizioni altrettanto profetiche, domandandosi : « O l’intelligenza accoglie in sé l’insieme delle cose oppure essa stessa è l’insieme delle cose. (2)
La pienezza della verità umana come la pienezza della verità cristiana, non teme la verità conquistata dall’uomo nella storia del pensiero. Tommaso d’Aquino si immedesima in questo atteggiamento di grande accondiscendenza verso il bello, il buono, il giusto, della verità del finito e dell’Infinito affermando che : « Qualsiasi frammento di verità da chiunque conosciuto deriva dalla partecipazione della luce che splende nelle tenebre, perché qualsiasi vero, da chiunque venga proferito, viene dallo Spirito»(3)
Per la ragione umana la luce che illumina le tenebre, è la luce dell’essere, corrisponde ad una ricchezza esistenziale. E poiché l’uomo è collocato al vertice della realtà sensibile, raccoglie nella sua interiorità, tutta la luce del creato sensibile. L’essere che si rivela all’intelligenza umana è la rivelazione naturale che Dio fa di se stesso all’umanità.
La sintesi della verità dell’essere con la verità dell’uomo e la continuazione di questa nella verità cristiana, deve affondare le radici in profondità per opporsi all’egemonia culturale dell’opinione e alle sordide invenzioni dei malpensanti che intrigano, camuffano, barattano l’errore con la verità.
Non basta la filosofia dell’essere per operare una connessione dialettica fra le due verità. Solo un felice connubio fra la verità del soggetto (uomo-persona) e la verità dell’essere, può vincere la scommessa per la costruzione di un pensiero che coniughi le due verità nell’alveo di un dialogo e ponga al centro di ogni prospettiva l’uomo in tutte le sue dimensioni. Per riconoscere e accettare questo processo bisogna essere mentalmente duttili e sensibili ai meccanismi logici. Conoscere ha come preludio il pensare. L’esercizio del pensare è un automatismo della ragione. Il discernimento è una scelta cruciale per la gratificazione del desiderio di un progetto portato a termine. L’azione originaria del pensare è cogliere la verità, lontana da ogni sterile vanità, nel compiacimento dell’intelletto. Il nostro approccio al “cantico dell’essere” ha avuto come traino il “pensiero docile” che è un pensiero incline a una creativa curiosità, al rispetto prudente delle opinioni altrui, al dialogo, alla perspicacia del cuore, a programmare l’avvento del conoscere nella verità, in cui essere e soggetto pervengono a un’unitiva fusione. Tutto ciò senza cedimenti e rimpianti. Per onorare il Vero.
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Note
(1) S.Th, I, 76,5, ad 4.
(2) De Ordine, II,9, 26, P. L., 32, 1007.
(3) Commento al Vangelo di S.Giovanni, I, lect. I ed Cai, n.33.