di
Maria Frasson
(puntate precedenti: I, II, III, IV, V, VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII)
Fronte greco-albanese
Se questa era la nostra condizione in città, ben peggiore era quella dei nostri soldati sul fronte greco-albanese. Il 28 ottobre del ’40 Mussolini aveva dichiarato guerra alla Grecia, con la scellerata convinzione di “spezzarle le reni”, come diceva, ossia di vincerla in due settimane, che diventarono oltre otto mesi (c’era da aspettarsene di più); e in quelle condizioni che sembrano oggi inverosimili a chi ha nella testa un briciolo di materia cerebrale. Sei divisioni italiane erano schierate su di un fronte montuoso, esteso per 200 chilometri contro quattordici greche, che conoscevano perfettamente il terreno, decise a difenderlo: come infatti fecero, con eroismo e con la sovvenzione degli Inglesi.
Mario era in prima linea sotto il tiro dei fucili e delle mitragliatrici nemiche, di marca inglese, che non risparmiavano nemmeno le tende con la croce rossa dei così detti ospedali da campo. Le nostre truppe erano male equipaggiate, costantemente in mezzo al fango e con le scarpe autarchiche, vale a dire con le suole di cartone pressato che si scioglievano sulla neve, e infatti a molti soldati gli si congelavano i piedi. Restavano anche spesso privi di munizioni e di viveri, oltre che di medicamenti d’urgenza. Questi arrivavano coi muli per i sentieri di quelle montagne sulle quali i Greci potevano sparare dall’alto centrando agevolmente i punti strategici. C’era un mulo che passava ogni giorno col suo carico su di un fragile ponticello di legno. Individuata la posizione, il tiro nemico spazzava via senza indugio il povero trasportatore che – eroe senza medaglia – se ne partiva col suo carico prezioso: così per tutto quel giorno, e per un altro e forse per un altro ancora ogni attesa era vana. Per farsi coraggio non restava che cantare: “canta che ti passa” anche la fame, dicevano. Come raccontano i Fioretti di San Francesco che quando il Santo era ricoverato nella capannuccia del convento di S. Chiara, perché era malato, per non sentire il male, cantava le lodi al Signore. Altrettanto facevano gli Alpini della lulia, poco lontano da loro, con quel triste canto rimasto famoso: “Sul ponte di Perati bandiera nera: l’è il lutto dell’alpin che fa la guera”.
Per fortuna le nostre artiglierie che si trovavano in posizione più arretrata erano comandate dal tenente Repossi, amico di Mario che sempre lo ricordò e sempre con gratitudine. “Mi ha sfamato più volte”, diceva. Da lui infatti arrivò spesso il rimedio attraverso rinnovati itinerari più nascosti.
Io queste notizie le avevo da ufficiali e soldati che venivano in licenza ed era specialmente con questi ultimi che mi sentivo maggiormente a mio agio per interrogarli più minutamente, in attesa di una risposta meno meditata.
Sulle lettere di Mario gravava la censura e io non potevo mai sapere nemmeno dove fosse, dovendo indirizzare a: Ospedale da campo seguito da un numero–Posta militare… con un altro numero, anch’esso misterioso e soggetto a cambiamenti.
Era desolante dover soltanto pensare a una tenda lassù tra la neve e il fango in condizioni tali da non poterle immaginare e ancor oggi mi domando : “Qual era il tuo stato d’animo allora per te, Mario, che avevi ricevuto col dono della vita quello della vocazione e l’avevi educata con la forza della tua volontà e la misura del tuo grande cuore?”
Conservavo e conservo ancora una sua lettera del tempo lontano in cui eravamo fidanzati, che diceva: “Dopo i pesanti studi di anatomia, tra laboratori e provette, ho cominciato il corso di diagnostica chirurgica. La presenza dell’uomo, per di più malato, mi ha fatto molta impressione; ho sentito, nel fondo del mio cuore, un desiderio forse nuovo, caldo come una vocazione: fare le mie mani abili e sensibili come per un’arte, per l’arte che usa la materia più nobile. Se fosse questa la mia arte! Sento che crederei ad essa come a un dono di Dio”.
I feriti e i malati più gravi – così mi dissero – venivano di solito trasportati in barella in altri ospedali da campo più arretrati.
E un giorno in barella fu portato anche lui in un altro ospedale da campo situato nella retrovie: aveva la febbre a 40. Io non lo seppi subito, ma solo dopo giorni di angoscia, consueti del resto per i ritardi delle sue lettere, spesso censurate, a volte deviate o disperse. Seppi più tardi, quando venne in licenza che si trattava, a quanto disse, di una forte febbre reumatica. Non disse mai invece quello che gli trovarono i chirurghi all’inizio del suo ultimo calvario e cioè di avere una scheggia nei polmoni, forse collegata a quell’episodio che rimane tuttora un mistero. Il fatto è che i portaferiti, mentre attraversavano uno spiazzo aperto, si trovarono sotto un violentissimo bombardamento aereo per cui si diedero alla fuga, abbandonandolo solo sulla barella in attesa che l’uragano cessasse.
Però, quei barellieri…
Comunque la Divina Provvidenza gli era accanto – ne sono convinta – e lo protesse.
Fu curato, rimesso in piedi e volle subito tornare al “suo” ospedale da campo in prima linea, commentando scherzosamente al suo ritomo: “Capivo che mi sarei curato molto meglio da solo”. Venne in licenza poco tempo dopo. Era stato promosso di grado: aveva anche avuto encomi e onorificenze varie al valor militare, ma questo non alleviava i suoi disagi lassù né il rinnovato dolore di una nuova partenza, dopo aver superato un esame di specialità.
Ancora un distacco, ancora giorni e giorni di attesa di quelle lettere attraverso le quali soltanto potevamo comunicare, come attraverso un filo d’oro, tanto sottile e tanto fragile che un alito di vento avrebbe potuto spezzare per sempre.
Lettere affettuosissime sempre, ma non tali da facilitare la reciproca comprensione, la quale non mancò mai tra noi al nostro dialogo diretto.
Le vicende della guerra erano diventate molto critiche per noi Italiani e fu allora che rinforzi tedeschi molto consistenti per uomini e mezzi intervennero, piazzandosi nella zona più orientale dello schieramento e sferrarono con decisione quell’offensiva che operò lo sfondamento del fronte, segnando la disfatta dei Greci i quali erano ormai stremati e ridotti alla fame pur avendo combattuto con eroismo, come noi. Essi furono subito, naturalmente, abbandonati dai loro alleati Inglesi i quali lasciarono sul fronte greco, per accorrere su altri fronti, specie in Africa, e in patria, ciò che loro più non serviva per combattere in montagna. Sopra tutto coperte, ottime coperte di lana che noi potevamo soltanto sognare e io, che ne ebbi una, ne feci ricavare da un sarto di campagna due ottimi cappottini per le bambine: parevano usciti da una sartoria di gran classe.
I Tedeschi intanto proseguivano la marcia vittoriosa dei loro carri armati prima verso Salonicco, poi fino ad Atene, dove imposero l’armistizio.
Sul golfo di Volo, in Tessaglia
Rimasero – per quasi due anni – truppe di occupazione italo-tedesche unite e pur divise sul territorio a loro assegnato: Mario era con loro e col suo ospedale da campo.
La posizione era tranquilla e anche pittoresca, sul golfo di Volo in vista del “greco mar” alle pendici del Pelio, il paese dei Centauri. E per essere in armonia con l’ambiente, lui, unico medico della zona, si serviva di un cavallo (o non era forse un centauro?) per poter raggiungere qualche attendamento isolato, senza rifiutare le sue cure neppure a quei poveri Greci che morivano di stenti e di fame. Anche i suoi soldati ne avevano pietà e davano loro quello che potevano, mentre Hitler aveva dato ordine di sopprimere vecchi e bambini, ossia gli inabili al lavoro, le bocche inutili. Per quanto però mi consta tuttora, non pare che tale ordine sia stato mai eseguito. A Volo non è in realtà che mancassero i pericoli ma si trattava tuttavia di episodi isolati. C’era infatti pur sempre qualche franco-tiratore che sparava stando nascosto (eroe o bandito?) contro coloro che erano truppe d’occupazione nel suo paese. Mario raccontò di aver avuto paura un giorno in cui gli fu colpito, ma non freddato sul colpo, il cavallo, il quale, come impazzito, si mise a correre disperatamente mentre scendeva da una di quelle strette e scoscese strade di montagna caratteristiche del luogo in cui le case hanno il primo piano basso e sporgente sulla strada, contro il quale, stando con enorme fatica in sella, si vedeva sbattere la testa ad ogni istante. E alla fine della discesa la povera bestia stramazzò di colpo su una radura donde non si mosse più. Era morto, mentre il cavaliere si trovò, come smarrito e con stupore, seduto per terra sull’erba, fortunatamente incolume. Quale dei due, cavallo o cavaliere, c’è da chiedersi, era stato più intelligente?
(continua…)